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L’Italia fanalino di coda in Europa

La percentuale di nuclei familiari a rischio di povertà a livello nazionale è del 20,1%, in presenza di tre figli tutti minori sale al 37,7% e rimane alta anche se i tre figli non sono tutti minori (30,9%). l’Italia investe per la famiglia poco più della metà di quanto investono i Paesi più virtuosi. L’analisi di Pietro Boffi ricercatore del Centro Studi Internazionali sulla Famiglia (Cisf)

Il Cisf Family Report 2023, intitolato Politiche al servizio della famiglia, (Ed. San Paolo) molto opportunamente dedica un ampio capitolo comparativo (cap. 6, a cura di Pablo García-Ruiz e Pablo Redondo-Mora, pp. 143-180) alle politiche familiari che i vari Paesi europei nel corso del tempo hanno messo in campo.

Prima di presentare qualche considerazione su quanto contenuto nel capitolo, ci sembra opportuno citare alcuni dati contenuti vari passaggi del Report stesso, relativi ad indicatori sociali ed economici del nostro sistema che delineano un quadro a dir poco preoccupante della situazione italiana.

Se la percentuale di nuclei familiari a rischio di povertà a livello nazionale è del 20,1%, in presenza di tre figli tutti minori questa sale al 37,7%, e rimane alta anche se i tre figli non sono tutti minori (30,9%) (p. 219). In compenso, il più importante investimento, dal punto di vista delle risorse impiegate, effettuato negli scorsi anni per contrastare la povertà, il controverso Reddito di Cittadinanza, era completamente sbilanciato a favore dei nuclei senza minori: erano il 63,5% dei percettori nel 2019, saliti poi addirittura all’87,4% nel 2021 (p. 221). Altro dato: se la media dell’occupazione femminile in Europa è del 66,5%, con Germania, Svezia e Lituania sopra il 75%, l’Italia si attesta al penultimo posto, con il 52,5% delle donne occupate  (p. 105). Per quanto riguarda la presenza di asili nido e altri servizi per i primi anni di vita dei figli, l’obiettivo della cosiddetta Conferenza di Lisbona, il 33% di posti disponibili da raggiungere entro il 2010 (sic!), esso è stato finora raggiunto solo in alcune regioni del Nord, come Lombardia e Emilia-Romagna, mentre al Sud le percentuali sono minori del 20%, con la Calabria al 12% (p. 218). Per la natalità, peraltro strettamente collegata  sia all’occupazione femminile che alla presenza di servizi per la prima infanzia, ormai si parla in termini di disastro annunciato: nel 2022, per la prima volta dall’unità d’Italia, sono nati meno di 400.000 bambini, che solo 10 anni prima erano stati 534.000. E la cosa più grave è che ciò è dovuto non solo dal nostro bassissimo tasso di fecondità (1,24 figli per donna nel 2022), ma soprattutto perché il calo della fecondità dura da così tanto tempo che ci sono sempre meno potenziali madri: dal 2008 al 2017 le donne in età fertile, tra i 15 e i 49 anni sono diminuite di quasi un milione (p. 114-115).

In questo contesto, che non sarebbe esagerato definire drammatico per l’equilibrio complessivo dell’intera nostra società, l’Italia destina abbastanza risorse per le famiglie? La tabella pubblicata a p. 150 del Report Cisf, e che riportiamo qui sotto, ci pare risponda in modo inequivocabile: no!

Spesa pubblica per le politiche familiari.

Percentuale del PIL (2019)

Francia 3,44
Svezia 3,42
Polonia 3,35
Germania 3,24
Ungheria 3,09
Italia 1,87
Spagna 1,48

Come si può notare, l’Italia investe per la famiglia poco più della metà di quanto investono i Paesi più virtuosi e, anche dopo l’introduzione dell’Assegno Unico Universale (AUU), resta al di sotto della media europea, che si attesta al 2,5% del PIL. Come viene fatto notare nelle conclusioni del Report, «Allinearsi alla media della spesa complessiva europea per famiglia/figli comporterebbe un incremento delle risorse dello 0,5 per cento di PIL, che, ai valori del 2022, corrisponde a 9,5 miliardi» (p. 216).

Non possiamo qui addentrarci nel dettaglio delle singole misure e prestazioni a favore delle famiglie dei Paesi indicati sopra, analizzate in modo approfondito nel capitolo del Report Cisf citato, a cui rimandiamo. Dalla sua lettura, si deduce che in tutte le principali misure a favore delle famiglie, suddivise per chiarezza in benefici finanziari e fiscali; accordi di lavoro flessibili per facilitare la conciliazione lavoro-famiglia; fornitura di servizi di assistenza, la colonna relativa all’Italia è la più misera, anzi spesso resta desolatamente vuota.

Per fare qualche esempio, a fronte della Francia, dove «le Caisses d’Allocations Familiales offrono più di 20 benefici alle famiglie, in base alla loro situazione e al loro reddito, valutati secondo un “quoziente familiare” che riflette la diversità dei bisogni» (p.146), in Italia anche l’introduzione del citato Assegno Unico Universale, certamente positiva, non ha colmato il gap, posto che, come scrive il direttore del Cisf Francesco Belletti nelle conclusioni, «Il meccanismo operativo è complesso, come conferma l’elevato numero di titolari che non hanno fatto richiesta (generando così un margine di risorse, 630 milioni di euro per il 2022 e, si stima, attorno ai 2 miliardi di euro per il 2023). Anche l’ammontare complessivo appare da rivedere, a fronte del costo reale del figlio, così come la gradualità con cui l’ammontare dell’assegno scende al crescere dell’ISEE. In Germania l’assegno è di 219 euro al mese, per tutti, senza diminuzioni sulla base del reddito; almeno lì bisognerà arrivare…» (p. 228).

Anche i congedi parentali non sono adeguati. Se la maternità storicamente in Italia è stata sempre molto ben tutelata, i congedi di paternità – considerati una misura essenziale per promuovere la partecipazione di entrambi i membri della coppia al ménage familiare ed alla cura della prole, evitando il sovraccarico delle donne e facilitando le scelte riproduttive – dopo anni di battaglie sono stati recentemente portati a 10 (sic!) giorni retribuiti, contro ad esempio i 25 giorni della Francia, le 8 settimane della Germania, le 16 settimane (!!!) della Spagna.

E ancora: la spesa pubblica per i servizi educativi e di cura per la prima infanzia (0-2 anni) è di 1.500 euro pro capite in Italia, contro i 4.700 della Germania, i 9.000 della Francia e i 16.100 della Svezia, dato che si traduce in una percentuale di bimbi iscritti del 26,4% per il nostro Paese, contro i 39,2% della Germania, il 47,6% della Svezia e addirittura il 58,1% della Francia.

In conclusione, che dire? Resta ancora molto da fare per raggiungere standard europei minimamente dignitosi, nel campo delle politiche familiari e della promozione delle scelte di vita e di fecondità delle future generazioni. Ma attenzione: il tempo per riuscire non diciamo ad invertire, ma almeno a parzialmente correggere un trend che ci vede correre verso una composizione della nostra popolazione sempre più squilibrata, che non potrà reggere le sfide sociali, economiche sanitarie che ineluttabilmente ci attendono, si è fatto breve, anzi brevissimo. La lettura del Report Cisf fornisce dati, analisi, indicazioni operative concrete e scientificamente fondate: sarebbe grave se rimanessero, ancora una volta, lettera morta.

Fonte: Pietro BOFFI | FamigliaCristiana.it

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