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«Aristocrazia 2.0» di Roger Abravanel: una proposta meritocratica per salvare l’Italia

Noi che amiamo l’Argentina non vorremmo imitarla. Roger Abravanel è un ingegnere che predilige le linee nette, non le mezze tinte. Quello che pensa lo dice con totale sincerità. Ciò lo rende non raramente ispido, scomodo. In Aristocrazia 2.0. Una nuova élite per salvare l’Italia (Solferino), il celebre consulente d’azienda (un lungo passato alla McKinsey, amministratore in grandi gruppi) ricorda che nel 1913 l’Argentina aveva un reddito pro capite più alto di Francia e Germania. Poi ha fatto default, è fallita sette volte. Se vogliamo sfuggire alla trappola della bassa crescita e di un debito pubblico insostenibile dobbiamo rivalutare merito, mercato e concorrenza.

Gli alfieri della meritocrazia sono accusati, nel mondo anglosassone, di aver ampliato le disuguaglianze, di aver aperto le porte al capitalismo sfrenato. Con gli effetti sociali e i disordini che sono sotto i nostri occhi. Il saggio di Michael Sandel, docente di filosofia politica ad Harvard (The Tiranny of Merit) ha suscitato un ampio dibattito. Chi ha di più manda i figli nelle università migliori, paga rette stratosferiche, ha un vantaggio incolmabile. Non c’è prestito o borsa di studio che tenga. Dei dieci uomini più facoltosi degli Stati Uniti, sette sono laureati in università della Ivy League. Non risparmiano risorse perché i loro figli li imitino. L’ascensore sociale si è fermato. C’è la bolla degli straricchi, l’inferno degli strapoveri e una classe media privata della speranza di migliorare la propria condizione. Si è creata una vera e propria aristocrazia del talento e dell’istruzione, che è poi quella che ha dato il titolo al saggio. Secondo Abravanel, «se la meritocrazia ha fallito nel realizzare le pari opportunità, ha però creato milioni di buone opportunità per una generazione di giovani che hanno cercato la migliore istruzione e ottenuto una vita più agiata di quella dei propri genitori». In Italia, invece, vige imperterrita, con i suoi tratti feudali se non amorali, la vecchia classe privilegiata, una sorta di aristocrazia 1.0 — come la chiama l’autore — in cui i legami famigliari, amicali, contano più dello studio e della ricerca dell’eccellenza. La relazione fa premio sui risultati.

Il titolo del libro di Abravanel non inganni. L’élite della meritocrazia italiana, semmai se ne formerà una, non dovrà essere esclusiva, egoista e distante dai destini della nazione, bensì il più possibile responsabile e aperta, persino di massa. Un’avanguardia di «capaci e meritevoli», come dice la Costituzione, che traini la crescita dell’intero Paese lungo la frontiera dell’innovazione, come avviene nelle economie di maggior successo. Abravanel ricorda l’importanza dell’istruzione nei Paesi asiatici. A Singapore, in Corea del Sud, Giappone ma nella stessa Cina (la figlia di Xi Jinping è laureata ad Harvard). È il volano del loro successo. Persino con degli eccessi. «In Corea — un Paese che ha triplicato il reddito nell’ultima generazione e dove 7 giovani su 10 vanno all’università — lo Stato ha dovuto introdurre una specie di coprifuoco per evitare che i ragazzi studiassero fino a tarda notte (e poi si addormentassero in classe)».

Il termine «meritocrazia» nel mondo asiatico semplicemente non esiste. Israele è citato spesso come un esempio virtuoso nella valorizzazione del capitale umano. Ed è curioso che il Talmud in Cina sia diventato un bestseller, scelto dalle famiglie per orientare la carriera dei propri figli.

In Italia, al contrario, l’ambizione ha un valore sociale negativo. Le carriere sono cariche di sospetti e di invidie. La percezione dell’imprenditoria distorta. Non è un caso che la propensione giovanile al rischio, e al mettersi in proprio in un’attività aziendale, sia tra le più basse nei Paesi industriali. Ma la colpa è anche dei capitalisti nostrani (Abravanel mette sotto accusa la vecchia Confindustria) che preferiscono il controllo della famiglia alle opportunità di crescita dimensionale delle aziende, senza la quale c’è poca ricerca e innovazione. E trascurano la ricerca e la creazione di high value jobs, le professioni ad alto valore aggiunto, indispensabili per accrescere la produttività e il reddito. «L’imprenditore americano, svizzero o cinese — scrive Abravanel — ama, come l’italiano, i propri figli ma generalmente (con le eccezioni di Trump e Murdoch) resiste alla tentazione di tutelarli mettendoli in azienda, perché l’ecosistema di business lo considererebbe matto». Abbiamo un capitalismo più «familista» che passa il testimone a figli e manager fedeli, ma non eccellenti. Abravanel loda Marchionne, ma critica gli Agnelli e Romiti. Ricorda con amarezza il disastro dei Ferruzzi, la scomparsa di Montedison, e la stagione poco lusinghiera dei salotti finanziari tra Mediobanca e Generali.

Gli esempi positivi non mancano: la caparbia genialità di Del Vecchio, fondatore di Luxottica, ormai però «francese»; la visione scientifica di Umberto e Carlo Rosa con Diasorin; il private equity sociale di Luciano Balbo. «Quando Amancio Ortega creò Inditex (Zara), Benetton era già un grande gruppo. Oggi il fatturato di Benetton è un terzo degli utili di Zara». Ortega, figlio di un operaio delle ferrovie spagnole, è tra le prime dieci persone più ricche al mondo.

L’università italiana — ed è questo un passaggio che susciterà forti polemiche — è la principale nemica della meritocrazia. Refrattaria alle valutazioni, incapace di contrastare il facile mito dell’ateneo sotto casa. Molta didattica ma poca ricerca. L’autore salva Bocconi, Politecnico di Milano e una decina di buone università ma sostiene con veemenza che «senza università high tech di eccellenza non nascono imprenditori high tech miliardari, quelli che fondano colossi aziendali che, a loro volta, creano high value jobs».

La burocrazia italiana è un grande ostacolo all’affermazione del merito, ma ad Abravanel non piace la retorica dei «fannulloni». Meglio incentivare chi fa bene e ha la soddisfazione personale di un «lavoro ben fatto» contro il quale rema lo strapotere giudiziario, troppo autoreferenziale.

E allora come creare questa nuova élite di aristocratici 2.0? Un milione di giovani tra i 20 e i 25 anni da spronare allo studio, duro, e alla competizione, aperta. Tre le proposte. Rifiutare lo statalismo di ritorno post pandemia, sviluppando il capitale privato «intelligente» della Borsa e dei private equity, come ha fatto Israele con Yozma nell’high tech. Gettare un sasso nello stagno delle università italiane e costringerle ad aprirsi veramente al mercato per avere i migliori studenti, promuovere i laureati più brillanti. Maggiori pesi e contrappesi alla magistratura. Per esempio, con una seria valutazione biennale delle toghe, come in Germania: da noi sono quasi tutte eccellenti. E restituire, inoltre, un più ampio potere alla gerarchia giudiziaria, togliendolo ai sindacati. Non si può dire che non siano obiettivi ambiziosi.

Fonte: Roger Abravanel | Corriere.it

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