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Parole che “male-dicono”

Le patologie della comunicazione indotte dal potere contengono sempre la dimensione della minaccia e dell’asservimento. Recuperiamo le “buone maniere” per purificare il nostro universo interiore, relazionale e sociale 

Lo spettacolo offerto negli ultimi tempi dal linguaggio della politica e della comunicazione avvilisce e mortifica per quanto è intriso di disprezzo e di violenza, rivolti all’avversario di turno: violenza manifesta, espressa dall’aggressività dei toni e delle parole; ma anche, e forse soprattutto, violenza subdola del discorso ironico/persuasivo che, pur pronunciato con toni urbani, è concepito per screditare un’idea, una persona o uno schieramento, con dichiarazioni indignate circa la supposta inferiorità morale dell’avversario, giungendo a mettere in dubbio la stessa legittimità del suo dissenso.

La violenza delle parole riempie il vuoto lasciato dalla scomparsa delle “buone maniere”. Una mancanza che penetra in profondità e sostituisce con il disprezzo il rispetto dovuto alla persona in quanto persona.

La vita di relazione ci pone costantemente di fronte alle persone, e l’unico comportamento “buono” possibile verso gli altri esseri umani si fonda sul rispetto autentico, non solo nominale, della loro dignità; un rispetto che deve tradursi nella regola di trattare il prossimo come vorremmo essere trattati noi stessi.

Il contrario del rispetto è il disprezzo. Se il rispetto sta alla radice di ogni buona relazione, il disprezzo genera per sua natura comportamenti violenti, cioè comportamenti lesivi della giustizia. Non stupisce, perciò, la spirale di degrado innescata dalle dichiarazioni venate di risentimento e di arroganza che rimbalzano da un attore all’altro del mondo della politica e della comunicazione: è tutto combustibile che contribuisce a diffondere l’incendio del “discorso d’odio”.

I politici, i mass-media e i social ci hanno abituato a prese di posizione molto discutibili sul tema del linguaggio dell’odio, sia per la parzialità che per la superficialità dei giudizi. Campioni nell’usare bilance con due pesi e due misure, sempre pronti a schierarsi con i fautori del politicamente corretto, i comunicatori alla moda additano come linguaggio d’odio solo quello del “cattivo” di turno, nella gran parte dei casi rappresentato da chi propugna valori civili e religiosi alternativi al relativismo. I relativisti enfatizzano i momenti nei quali, sbagliando, coloro che portano visioni alternative al politically correct hanno il torto di esagerare con i toni. Oltre che partigiana, questa prospettiva è superficiale, perché non tiene conto del profilo più importante del problema.

La parola, infatti, ha in sé due aspetti. Il primo riguarda la sua funzione di conoscenza: si parla per rendere conoscibile qualcosa di reale attraverso la sua designazione. Il secondo è il suo carattere comunicativo: si parla per rendere conoscibile qualcosa a qualcuno.

Questi aspetti sono inseparabili, perciò il discorso che non si cura della verità, sia del contenuto sia del suo fine, distrugge il proprio carattere comunicativo, con la conseguenza di mettere a rischio la vita culturale e spirituale della società umana, visto che quest’ultima si svolge necessariamente attraverso il mezzo della parola.

Ragionando del legame tra abuso della parola e abuso di potere, il filosofo Josef Pieper riprende le riflessioni di Platone sul discorso “adulatorio”. Chi non si preoccupa della verità di quello che dice non considera più l’altro come un soggetto suo pari. In questo contesto la comunicazione si trasforma in adulazione. Adulazione qui non significa compiacere qualcuno, ma avere come fine un interesse diverso dalla verità: non parlo perché ciò che dico è vero, né parlo per il bene di chi mi ascolta, ma lo faccio per raggiungere uno scopo che mi interessa.

Il discorso adulterato, che mira a uno scopo diverso dalla verità, avvilisce la dignità dell’interlocutore, perché si serve di esso come di uno strumento, come un mezzo per raggiungere un fine. Certo, questo tipo di comunicazione non può essere efficace senza ottenere, almeno in una certa misura, il consenso del destinatario del messaggio; l’uomo, infatti, non vuole essere ingannato, ha bisogno di poter credere che quello che vede, legge o ascolta, e di cui si compiace, sia qualcosa di sensato e importante. Perciò, mantenere celata la corruzione della parola appartiene alla natura e alla dinamica del discorso adulatorio. Quando, però, la parola si svincola dalla verità, diventa uno strumento disponibile ad essere impiegato per scopi violenti di qualsiasi genere.

E’ sempre Platone a insegnare nella Repubblica che l’esistenza iniqua è caratterizzata dall’intreccio tra «peitho» (parola persuasiva) e «bia» (nuda violenza). Le patologie della comunicazione indotte dal potere contengono sempre la dimensione della minaccia e dell’asservimento, presenti tutte le volte che si usa la parola come un’arma per deridere, diffamare, insultare, escludere, screditare.

Recuperiamo le buone maniere per purificare il nostro universo interiore, relazionale e sociale, inquinato dalla parola che adula e “male-dice” (dal latino male-dicere, “dire male di qualcuno/qualcosa”).

Fonte: | AllenazaCattolica.org

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