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Don Matteo, il suicidio e il mistero immenso del cuore dell’uomo

Il sacerdote si è tolto la vita nel Novarese: facciamo silenzio, teniamoci lontani da ogni giudizio. Essere prete è complicato: è osannato e calunniato. Me anche lui fa i conti con le miserie umane

Domenica mattina, in chiesa: «Padre, che c’è? Ti vedo triste». «Lo sono: don Matteo, un mio giovane confratello, ha detto addio alla vita». «Lo conoscevi?». «No, ma potrei elencarti, senza il timore di sbagliare, le sue speranze, le sue paure, i suoi dubbi, le sue tristezze, le sue gioie più profonde e vere».

No, non sono un indovino né un profeta, ma solo un prete come lui. E i preti si somigliano tutti. Hanno impresso nell’animo lo stesso marchio indelebile. Perciò oggi il clero italiano, e non solo, ha il cuore a lutto. Don Matteo è uno di loro. Il prete, nella società odierna, è una figura strana. Ricercato e bistrattato, osannato e calunniato.

Un uomo che, liberamente, si è assunto il difficile compito di rendere presente Dio, che non si vede, ai propri contemporanei che sovente ne farebbero volentieri a meno. Un uomo al quale viene chiesto tanto e perdonato poco. Non è, e non deve essere, un angelo, il prete. Dopo l’ordinazione continua ad avere fame e sete come tutti; a sentire il freddo, il caldo, la stanchezza, la rabbia, come tutti. E come tutti deve lottare contro le tentazioni, quelle vocine suadenti, cioè, che, nei momenti cruciali, si fanno avanti e ti propongono di intraprendere una comoda ma peccaminosa scorciatoia. Come ogni uomo, anche il prete può cedere al ricatto del maligno. Può – ho detto può non deve – mordere un frutto proibito, rubacchiare una carezza che non gli è dovuta, un abbraccio clandestino, o accarezzare, almeno per un po’, un pensiero vagabondo.

Il presbiterio di cui fa parte è una famiglia, per certi versi, anomala. Una famiglia di soli maschi, i cui membri sono tanto diversi tra loro, per età, cultura, santità, modi di intrepretare il vangelo e la realtà. Anche i preti, poverini, debbono fare i conti con tutte – ma proprio tutte – le miserie umane. I carismi personali – dono di Dio per la salvezza delle anime – non sempre vengono compresi, accolti, accompagnati, incoraggiati dal presbiterio.

Nella vita del prete, importante, fondamentale oserei dire, è la figura del vescovo. Anche a loro viene chiesto tanto: devono saper essere padri e maestri, fratelli, amici, psicologi. Devono essere autorevoli, umili, pazienti, poveri, accoglienti, empatici. Santi. Non sempre accade. Gli impegni sono tanti, il tempo sempre poco e tiranno. Non esiste il prete senza presbiterio. Nel campo del Signore non si lavora a cottimo.

Non poche volte, però, la comunione fraterna – autentica, vera, liberante, consolante – viene confusa con una sorta di pigra piattezza. La fraternità sacerdotale con la casta. Un prete è – dovrebbe essere – coscienza critica. Una sorta di eterno contestatore. Non per il gusto di esserlo, ma per la missione che gli è propria: richiamare gli uomini a guardare oltre, a non accontentarsi mai, a sperare contro speranza, a non cedere alle lusinghe del nemico, a insistere, a volere e perseguire sempre e solo il bene, per gli amici e per i nemici.

È un amico anomalo, un prete, e lui lo sa. Qualsiasi compagnia gli va stretta. Si trova bene con chiunque, riesce a legare con gli estranei, a trovare una parola buona anche laddove il dolore e il disagio chiudono la bocca e il cuore agli altri. È vero, ha scelto di essere di Dio, di appartenere a Dio, di vivere di Dio, di rendere presente Dio.

Ma è proprio quello stesso Dio che gli combina certi scherzi. Il più delle volte si fa trovare, luminoso e bello. Pronto a tenergli compagnia durante le sue notti insonni. A farlo riposare sulla propria spalla quando è depresso e stanco. A consolarlo quando ingoia amarezze e incomprensioni. Altre volte, invece – non so perché – gli piace giocare a nascondino. Tu bussi, ma la porta non si apre. Chiedi, insistentemente chiedi, ma non ottieni un bel niente. Cerchi, caparbiamente cerchi, ma non trovi. Occorre avere pazienza. Essere capace di prenderlo e prenderti in giro. Ci sono guerre che si combattono sul fronte, rischiando la vita ogni momento e le cosiddette guerre dei nervi. Per vincere devi saper attendere.

La vita spirituale – non solo, la vita in genere – è una battaglia. La Chiesa ha sempre consigliato ai cristiani, e in particolare ai consacrati, un padre spirituale, una sorta di stratega che ben conosce il campo di battaglia, che sappia accompagnarti nei meandri della fede quando la strada asfaltata diventa prima un sentiero polveroso, poi un vero e proprio deserto. Tutto ciò che riguarda gli uomini riguarda i preti, anche se in un modo diverso. Un prete può cadere in depressione? Certamente. Sarebbe un’ingiustizia se questa gabbia oscura andasse a posarsi su chiunque tranne che su di lui. Può cedere alla tentazione? Certo, la Chiesa non lo ha mai negato. Ma, come chiunque, può risollevarsi e riprendere ad amare e servire Dio e il prossimo con maggiore lena ed entusiasmo.

Il dramma di don Matteo lo abbiamo vissuto, ancora una volta, nel mio paese solo una settimana fa. Anche Salvatore, felicemente sposato e con figli, si è fatto scivolare verso la morte. Facciamo silenzio. Teniamoci lontani da ogni giudizio temerario. Il cuore dell’uomo è un mistero immenso. Non poche volte si esprime in una lingua sconosciuta allo stesso protagonista. Don Matteo, ci hai spaccato il cuore. Riposa in pace, fratello. Prega per noi. Tutto l’Italia cattolica, e noi, poveri preti, stanno pregando per te e per i tuoi cari.

Fonte: Maurizio Patriciello | Avvenire.it

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