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Bellantone: «La culla per la vita in tutti gli ospedali? Gesto di civiltà»

Il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità: una rete di culle termiche negli ospedali pubblici potrebbe rappresentare una misura concreta per evitare l’abbandono

Ha suscitato sgomento e grande impressione il ritrovamento tra i rifiuti del Pronto soccorso dell’Ospedale di Piacenza, il 19 giugno, del corpicino di un bimbo attorno alle 30 settimane di gravidanza. Chi l’ha abbandonato, forse già cadavere? Cosa ha spinto a gettare una vita umana? Perché non ha tentato un’altra strada, per salvare il piccolo e affidarlo a chi avrebbe potuto prendersene cura? Domande rimaste senza risposta: le indagini non hanno ancora portato a identificare la mano all’origine di questa drammatica vicenda. Se non c’è una soluzione ancora al caso, c’è invece già una proposta perché un caso del genere – purtroppo non il primo con questo esito – non si ripeta più: far nascere una rete di “culle per la vita”, sul modello di quelle (poco più di 60) già attivate in tutta Italia dal volontariato, accanto agli ospedali in ogni parte del Paese, per iniziativa della Sanità pubblica.

Una misura da affiancare a quella attiva del “parto in anonimato”, e alla quale hanno già dato la loro adesione – tra gli altri – la Federazione nazionale degli Ordinoi dei Medici (Fnomceo) e i dirigenti delle aziende sanitarie (Fiaso). Alla loro voce si aggiunge oggi quella di Rocco Bellantone, presidente dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), massimo organismo dello Stato in materia di salute pubblica.

Professor Bellantone, cosa pensa della proposta rilanciata pochi giorni fa da Avvenire?

Una rete di culle termiche negli ospedali pubblici, collegate alle neonatologie, potrebbe rappresentare certamente una misura concreta per evitare l’abbandono e contemporaneamente un’opportunità per far si che un dramma non si trasformi in una tragedia. Un’operazione del genere richiede però uno sforzo organizzativo importante poiché è necessario costruire un sistema sicuro, funzionale e controllato ma rappresenta, oltre che un gesto di civiltà, anche un’ulteriore rete di sicurezza per le donne in condizione di fragilità.

C’è anche il parto in anonimato…

È la legge che lo garantisce, e resta sicuramente la prima e la migliore soluzione per assicurare la totale sicurezza per la salute di mamma e bambino. Serve innanzitutto una campagna d’informazione su questi strumenti. Il parto in anonimato è una possibilità che non conoscono tutte le donne, specialmente quelle straniere. Una rete di culle termiche collegate ai punti nascita mostrerebbe comunque uno dei volti più umani dell’ospedale: sempre aperto, accessibile, universale, un luogo di cura per ogni ferita, anche per quelle di chi, scegliendo di custodire la vita del suo bambino in una di queste cullette, attraverso un simile gesto resterà sempre una madre.

Cosa può fare la sanità pubblica per proteggere le gravidanze più fragili e più esposte alla tentazione di “scartare” i bambini?

Dietro ogni rinuncia, ogni abbandono, può esserci un grande dolore, storie umane che non chiedono di essere giudicate ma soccorse. Di fronte alle solitudini delle donne di fronte alle gravidanze a rischio è necessario avere operatori formati, capaci di creare una relazione empatica che non lasci sola la donna con le sue paure. Serve una rete che accoglie e che sostiene anche sul territorio attraverso una rete sociosanitaria forte. La maternità va sostenuta su molti piani, compreso quello culturale, perché se diventa un valore riconosciuto, coltivato nell’educazione familiare e sociale, devono risponderne anche le politiche di welfare, quelle del lavoro. Bisogna guardare alla maternità come a un investimento, prendersene cura. Bisogna affermare con forza, in tutti i contesti, che ogni nascita non è un costo ma un’opportunità nuova per l’intera comunità, una promessa di futuro.

L’Italia vanta ancora risultati di vertice internazionale nella sicurezza dei parti. Cosa occorre fare perché questa cura speciale per la maternità e la vita più fragile un sapere cruciale che è medico e culturale insieme venga preservato e trasmesso nel futuro?

Il nostro Paese da tempo ha investito significativamente nella qualità dell’assistenza alla nascita, e uno dei risultati più importanti è stata la riduzione statisticamente significativa della mortalità materna rilevata dall’inizio della sorveglianza coordinata dall’Iss. L’Istituto in questo ambito fa moltissimo: abbiamo una rete capillare di referenti clinici in ogni punto nascita, la rete Itoss, che ha come obiettivo segnalare le morti materne, sottoporle a un accurato e rigoroso processo di revisione critica per definirne le cause e valutarne l’evitabilità fornendo così evidenze utili a sanitari e a decisori politici per migliorare il percorso nascita e renderlo più sicuro. Abbiamo appena pubblicato l’aggiornamento della seconda parte della linea guida “Gravidanza fisiologica” dove l’attenzione, oltre che all’appropriatezza dei percorsi assistenziali, è centrata anche sulla salute mentale in epoca perinatale, sull’importanza di intercettare eventuali segnali di violenza subita. Nel documento raccomandiamo, infatti, anche l’offerta di screening per depressione e ansia fino a un anno dopo il parto.

Pensa sia utile l’alleanza che già in molti ospedali è attiva ed efficace tra l’istituzione sanitaria pubblica e le associazioni impegnate nella tutela e promozione della maternità, specie quand’è più in difficoltà?

Si tratta di una collaborazione preziosa, con un altissimo valore etico e civile. Le associazioni svolgono un ruolo prezioso nelle sfide di sanità pubblica. Lavorare insieme a loro significa poter contare, per esempio, sul supporto a un’informazione corretta ai pazienti e alla popolazione, che è fondamentale nella tutela della salute, ma non solo. Le associazioni, in alcuni casi, sono capaci di spiegarci meglio alcuni bisogni dei pazienti, e in casi di persone estremamente fragili possono rappresentare una straordinaria opportunità per contribuire a combattere il senso di isolamento e offrire una rete di supporto. Accanto alle associazioni in un ospedale è più facile realizzare un percorso di cura centrato sulla persona e non solo sulla malattia.

Fonte: Francesco Ognibene | Avvenire.it

 

 

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