Alcune riflessioni prima del dibattito parlamentare e tenendo presente l’importanza dell’unità (anzitutto fra i cattolici)
Sta per iniziare nel Parlamento italiano una nuova partita a proposito dei cosiddetti diritti civili. A metà luglio comincerà la discussione sul “fine vita”, cioè sul tentativo in corso anche nel nostro Paese, come in tutti quelli occidentali, di legalizzare il suicidio assistito e/o l’eutanasia.
Bisogna avere la consapevolezza che questa è la posta in gioco: ci sono forze politiche che esprimono una “cultura della morte”, come spiegava san Giovanni Paolo II, e vogliono scardinare uno dei principi fondamentali della civiltà occidentale, cioé la sacralità della vita, la sua indisponibilità e la certezza che esistono dei diritti naturali (prima ancora che civili) che lo Stato deve semplicemente riconoscere e proteggere e sui quali sarebbe bene che si guardasse dal legiferare.
Purtroppo, non viviamo in un mondo normale e nel mondo che c’è, sollecitato dagli interventi della Corte Costituzionale, il Parlamento è stato come costretto a legiferare, anche per impedire che il potere giudiziario si sostituisca a quello legislativo.
Siamo così giunti alle soglie di una presumibilmente lunga discussione parlamentare che renderà ancora più arroventata (e confusa) questa caldissima estate.
A tutte le persone normali (che sono relativamente poche) sarebbe così parso di buon senso che non si intervenisse con una legge su un tema così delicato come il fine vita, lasciando il divieto che c’è oggi e semmai intervenendo per mitigare le pene previste in alcuni casi drammatici.
Così non è stato. E allora che si faccia la legge migliore possibile o almeno la meno peggiore, seguendo l’insegnamento – quanto mai attuale in un contesto di dittatura del relativismo – contenuto nel nr. 73 dell’enciclica Evangelium vitae secondo cui, ove non sia possibile impedire leggi contro la vita, è lecito offrire il proprio sostegno a proposte mirate a limitare i danni e a diminuire gli effetti negativi sul piano della cultura e della moralità pubblica. Soprattutto, evitino di dividersi i pochi, in particolare i cattolici, che sono ancora impegnati per difendere e promuovere la vita. Saranno i giuristi di buoni principi, che non mancano, e i parlamentari legati al diritto naturale, proprio quello evocato da Papa Leone XIV all’inizio del suo pontificato, saranno loro a indicare la strada per ricordare che uccidere o facilitare la morte, anche di se stessi, non è mai un diritto, e che il dovere delle istituzioni è quello di migliorare per quanto possibile le condizioni delle persone che vivono l’esperienza della malattia e del tramonto della vita, non di “aiutarle” a morire. Bisogna diffondere l’accesso alle cure palliative, non legalizzare il suicidio.
Il punto certo, sul quale mi pare ci sia scarsa consapevolezza anche nelle forze politiche che sono impegnate nella difesa della vita, è che la posta in gioco è la stessa dagli Anni 70 del secolo scorso: scardinare una civiltà fondata sulla centralità della famiglia e la sacralità della vita. Chi avesse dei dubbi legga con attenzione l’articolo su La Stampa del 4 luglio di Corrado Caruso, che ripercorre con sincerità il processo di legalizzazione in Italia dei cosiddetti diritti civili, per arrivare a questa nuova tappa. Bisogna soltanto esserne consapevoli e decidere da quale parte stare.
Poi bisogna anche scegliere come stare dalla parte della vita. Non basta essere a favore della vita, bisogna anche difenderla politicamente con intelligenza e unità. L’unità non è solo una condizione per ottenere buoni risultati politici, soprattutto in un mondo così diviso come quello contemporaneo. L’unità è un dovere per i cattolici, che si costruisce attorno al Magistero. Pochi lo ricordano, anche i Pastori dovrebbero ricordarne l’importanza in frangenti così potenzialmente divisivi come questo che precede una discussione parlamentare.
Poi naturalmente in una società plurale il Magistero vale per chi si riconosce nella Chiesa, con chi ha altri principi di riferimento bisognerà trovare un accordo oppure andare allo scontro (politico).
Tuttavia, già soltanto raggiungere l’obiettivo dell’unità fra i cristiani sarebbe molto importante e non scontato. Tutti abbiamo ancora il ricordo delle divisioni che ferirono l’unità dei cattolici nei decenni passati. Anche sul tema del fine vita esiste un Magistero senza equivoci a favore della vita e contro ogni ipotesi di legalizzazione del suicidio assistito o dell’eutanasia: Samaritanus bonus, la Lettera della Congregazione per la dottrina della fede del 2020 sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita; la Dichiarazione Dignitas infinita del Dicastero per la dottrina della fede del 2024, per ricordare le più recenti.
Certo, quando si tratta di “portare” il Magistero nella concretezza delle situazioni storiche diventa tutto più difficile. Ma intanto sarebbe opportuno ricordare i contenuti del Magistero, che pochi conoscono, anche fra i cattolici. E poi sarebbe auspicabile ogni sforzo per trovare l’unità anche nelle decisioni politiche da assumere. Bisogna avere bene in mente il fine, cioè la promozione della vita, e il fatto che c’è chi rifiuta ideologicamente di volerla difendere sempre e comunque. Poi, dal confronto parlamentare verrà fuori una legge, speriamo la migliore possibile: ma non ha senso auspicare compromessi prima ancora di cominciare le trattative. Non si deve trascurare la verità, che esiste e va ribadita, soltanto perché non è condivisa da tanti. Nessuno si scandalizzerà se non si potrà ottenere una legge perfettamente conforme al diritto naturale, a causa della maggioranza che non c’è. Ma dimenticare per strada la verità sull’uomo e dunque la sacralità della vita, comporta un trauma che durerà nel tempo, come una ferita che tende a non rimarginarsi. Abbiamo ancora presenti i cattolici disobbedienti che si impegnarono pubblicamente per mantenere la legge sul divorzio nel 1974, quelli che non si impegnarono per abrogare la legge 194 nel 1978, quelli che andarono a votare mentre la Chiesa italiana chiedeva di essere uniti nell’astensione in occasione del referendum sulla legge 40 nel 2005.
L’unità è un bene, una testimonianza feconda contro il male del relativismo moderno. Essa è anche un esercizio ascetico di rinuncia alle proprie posizioni, è una rinuncia salutare in nome di qualcosa di più grande. Ci vogliamo provare, almeno questa volta?
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