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D’Avenia ha ragione: c’è bisogno di un’ipotesi positiva per vivere
— 13 Novembre 2020— pubblicato da Redazione. —
Il professore scrittore è uno dei pochi in Italia che ha il coraggio di dire ciò in cui crede. Lo fa anche nel ultimo libro “L’appello”
C’è un video in cui un intervistatore domanda ad un ruspante don Luigi Giussani: «Perché la aspettavano così?», in riferimento alle molte persone che lo attendevano desiderose al Meeting di Rimini. Risposta: «Perché credo in quello che dico»
Io non ho conosciuto don Giussani direttamente, ma attraverso il movimento che il buon Dio ha generato mediante lui e le persone che lo hanno conosciuto. So di lui che assieme all’essere un santo era un educatore, e che il sassolino divenuto poi valanga l’ha fatto cadere in un’aula di liceo.
Chi altri è un vero educatore è Alessandro D’Avenia. Lui sì lo conosco in prima persona. Da quando per l’esattezza io ero un quattordicenne pieno di sé, arrabbiato con l’universo e desideroso di fare lo scrittore, e lui non era che il professore di italiano per i suoi alunni e un nessuno per il grande pubblico. Non era infatti ancora stato dato alle stampe il suo primo e forse più bel romanzo, Bianca come il latte, rossa come il sangue. Il destino ci mise uno in faccia all’altro ad un cineforum organizzato nell’ambito di alcuni amici liceali dell’Opus Dei, durante il quale Alessandro ci mostrò e fece approfondire alcune pellicole come The Truman Show, Alla luce del sole e soprattutto A beautiful mind, il mio film preferito da quella sera in avanti.
Io ero uno spocchiosetto con una ferita da difendere e leccare. Ascoltando Alessandro, la ferita mi bruciava, e questo naturalmente me lo rese antipatico. Perché bruciava? Perché, come il don Giuss dice di sé nel video, Alessandro dava segno di credere totalmente a ciò che ci diceva. E cosa ci diceva? Che siamo fatti per cose grandi, che il male non è l’ultima parola su di noi e che la vita, con tutta la sua barca di mistero e fatica, un senso buono ce l’ha.
Di fronte alla serietà con cui mi propose tutto questo, io fui messo in crisi, che nel senso etimologico significa “scelta”. Dovetti scegliere se ignorarlo, o tentare ciò che sempre è necessario per scendere in profondità e per riemergerne adulti: un rapporto di amicizia. Così fu. Il seguito lo risparmio, se non che siamo ancora amici, per quanto ci vediamo di rado; e che all’età di ventisei anni mi ritrovo guarda caso a fare l’insegnante alle superiori e col desiderio di essere uno scrittore ancora integro e pulsante.
L’occasione per cui scrivo è la fresca uscita de L’appello, l’ultima fatica del nostro, tornato a scrivere un romanzo dopo sei anni. Mi immagino l’entourage di Mondadori, la casa editrice, che si frega le mani, poiché non poteva darsi una congiuntura storica migliore per mandarlo alle stampe. L’appello infatti è un romanzo-manifesto che mira a ribaltare il sistema scuola così come lo conosciamo in Italia. Quale momento più idoneo di questo, con le scuole sprangate, l’osceno surrogato della Didattica A Distanza, i professori latitanti, le telecamere anti-spaccio della Raggi e quant’altro tristemente conosciamo?
L’appello non è un romanzo canonico. È il racconto polifonico dell’incontro e del percorso – lungo un anno e forse più – di un professore cieco con gli alunni della sua classe, a cui insegna scienze. La narrazione è un filo sottile, che regge il ben più corposo vibrare delle voci del professor Omero Romeo (madre appassionata di classici e anagrammi…) e dei dieci ragazzi. Poiché non accade quasi nulla, non è tanto rilevante quel che succede – se non nel finale, quando ciò che il professore ha seminato dà frutto -, quanto ciò che i protagonisti hanno da dire. Cioè: che i ragazzi hanno un immenso bisogno di essere e-ducati, nel senso proprio e bellissimo del termine di “condotti fuori” dalla notte della mancanza di senso; e che la scuola di questo non può lavarsene le mani. D’Avenia, lungi dal ridurre il proprio ruolo di insegnante ad erogatore di nozioni, ha la pretesa buona di educare, e mi pare che in questo romanzo, come un buon Narciso, rispecchi completamente il suo bagaglio maturato fino ad oggi nell’ambito educativo. Il professor Romeo, la cui vicenda personale è potente e toccante, incarna la voce dell’autore. I momenti del romanzo che trovo più riusciti sono quelli in cui codesta voce, invece che profondersi verbosa – una tendenza che ogni tanto l’autore, mi cospargo il capo di cenere, ha -, o cede alle parole degli alunni stessi (è il vertice, e il più grande tesoro che D’Avenia ci restituisce, mutuato dalla propria esperienza ventennale), o mette a nudo le incongruenze e i tradimenti della scuola italiana. Ci sono in tal senso passi veramente gustosi e godibili.
Bisogna leggere e far leggere L’appello. Non perché sia il romanzo più riuscito di D’Avenia: non so se lo sia. Bisogna leggerlo poiché il momento presente lo richiede. Poiché chiunque nelle scuole paritarie che per statuto pretendono che il tema educativo sia sul piatto, e chiunque nelle scuole statali non abbia perso tale buona volontà, deve in questo momento storico incentivare e diffondere ciò di cui D’Avenia si fa portavoce ne L’appello. È cruciale, nell’attuale cancrena del panorama editoriale e della proposta culturale, che si elevi una voce così.
D’Avenia ha ragione: c’è bisogno di un’ipotesi positiva per vivere. Ciascuno, ad ogni latitudine di età, e con i ragazzi in primis poiché in loro il desiderio è meno drogato e meno cicatrizzato, necessita per vivere della prospettiva di un senso. Il professor Romeo finisce per diventare autentico padre per i suoi alunni proprio perché ha un senso da proporre loro. D’Avenia ha il grande merito poi di ipotizzare (per bocca del prof. e di un’alunna) su scala di best-seller che questo senso possa essere Gesù Cristo stesso. Trovatemi chi oggi in Italia, dotato di un pari seguito, non si vergogni di affermare ciò.
In un momento storico in cui la proposta di senso latita nelle famiglie e spesso non è intercettata in chiesa e negli oratori, essa va azzardata fra i banchi di scuola, innanzitutto prendendo sul serio i ragazzi per ciò che vivono e per il valore unico e irripetibile che essi sono, e mostrando che ciò che si fa in classe c’entri con questo desiderio di senso. La scuola, afferma l’autore, ha abdicato a questo compito, piegandosi allo schematismo dei programmi, all’inconsistenza di progetti noiosi se non dannosi, e al plauso sindacale e politico. Ma la scuola, come ogni angolo di realtà, si può con pazienza fare fiorire.
Non so se D’Avenia pecchi di idealismo. Il mio indomito cinismo barcolla quando scorro i social o leggo le classifiche, poiché molti giovani non credono alla balla dell’Andrà tutto bene. L’avidità con cui egli è ascoltato è reale, a dimostrazione che il bisogno in questione è quanto mai concreto; e chissà che un giorno le istituzioni stesse non lo prendano sul serio (ma, afferma con acuta sferza sul finire del romanzo, solo chi ha scoperto se stesso e il mondo attraverso la cultura farà qualcosa per la cultura).
Quello che so è che, senza cedere nella battaglia per la scuola, occorre che quella domanda di senso non venga disertata in nessun ambito della vita. Per tenerla desta, ben più che un discorso, è necessario un rapporto di amicizia, sia esso con un professore o un coetaneo o un prete. Un clima attorno a sé in cui continuamente sia esaltata la libertà e affermata l’ipotesi di un senso buono, qualsiasi esso sia, purché tenga alla prova della vita. La scuola è una malata in un più grande lazzaretto, né è compito della scuola in quanto scuola salvare le vite. Tale compito è di Dio mediante gli uomini, ovunque essi siano, dalle cattedre agli ospedali. E gli uomini non possono farcela da soli. Perciò mi pare che l’amicizia sia la chiave. Non a caso L’appello mi pare il romanzo in cui proprio l’amicizia è esaltata maggiormente rispetto al resto della produzione di D’Avenia, come perimetro fermo contro il buio. Per dirla in altri termini, frater qui adiuvatur a fratre quasi civitas firma.
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