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Raccontò la pandemia da Wuhan. Rischia 5 anni di carcere in Cina

La giornalista Zhang Zhan, che parlò del primo focolaio di Covid 19, è in carcere a Shanghai per aver «diffuso false informazioni»

La giornalista Zhang Zhan, che parlò del primo focolaio di Covid 19, è in carcere a Shanghai per aver «diffuso false informazioni»

Cinque anni di carcere. È abnorme la pena che la giornalista Zhang Zhan potrebbe scontare in Cina per aver raccolto e diffuso informazioni sulla situazione a Wuhan nei primi mesi del 2020, quando l’epidemia di Covid 19 non si era ancora diffusa in tutto il mondo e il capoluogo dell’Hubei era l’epicentro del contagio. Dopo aver raccontato l’evolversi del contagio a Wuhan da febbraio a maggio, Zhang è stata arrestata il 15 di quel mese e detenuta senza processo in un carcere di Shanghai. Come riporta il Guardian, lunedì l’autorità giudiziaria ha pubblicato il fascicolo che elenca le accuse a suo carico.

«DIFFUSIONE DI FALSE NOTIZIE»

Zhang avrebbe «turbato la stabilità sociale e creato problemi di ordine pubblico», accusa spesso rivolta agli attivisti invisi a Pechino, diffondendo «false informazioni attraverso articoli, video e altri mezzi su internet e piattaforme come Wechat, Twitter e Youtube». Peggio ancora, Zhang «ha accettato interviste con media esteri come Radio Free Asia ed Epoch Times speculando in modo malizioso sull’epidemia di Covid 19», ha accusato cioè il governo di aver nascosto ai cittadini la gravità della situazione.

Zhang non è l’unica giornalista a essere stata arrestata per aver cercato di raccontare che cosa stava davvero succedendo in Cina. Chen Qiushi è stato detenuto a gennaio ed è ricomparso soltanto a settembre. Si trova attualmente sotto costante sorveglianza governativa a Qingdao, nello Shandong. Li Zehua, che si era recato a Wuhan per rintracciare Chen dopo la sua scomparsa, è stato arrestato a febbraio e rilasciato ad aprile. Di Fang Bin, invece, non si sa nulla.

AI FEN, LA DONNA CHE SAPEVA TROPPO

Il governo cinese ha volutamente nascosto per almeno un mese alla popolazione e al mondo intero la realtà della pandemia, lasciando che si diffondesse a Wuhan e poi in tutto il mondo. Oggi la Cina è uno dei pochi paesi al mondo dove il Covid 19 sembra praticamente scomparso, ma il modo in cui il Partito comunista ha messo a tacere chiunque cercasse di denunciare la presenza del virus ha fatto il giro del mondo.

Oltre ai giornalisti, sono stati zittiti diversi medici. La prima a essere criticata e minacciata per aver denunciata la presenza di un numero eccessivo di polmoniti anomale è stata Ai Fen, direttrice del pronto soccorso dell’Ospedale centrale di Wuhan. A marzo Ai raccontò al magazine cinese Renwu di aver ricevuto il 30 dicembre i risultati delle analisi di alcuni di questi pazienti: nel rapporto c’era scritto “Sars coronavirus”. Ai inviò il rapporto a otto colleghi in diversi ospedali di Wuhan e per questo fu subito ripresa e minacciata dal capo del comitato di Partito interno all’ospedale. «Mi stava punendo solo per aver fatto il mio lavoro. Ma come potevo non dire niente a nessuno davanti a un nuovo virus così pericoloso?». Ai obbedì agli ordini ma «se solo potessi tornare indietro, lo direi a tutti: i miei colleghi non sarebbero morti», raccontò.

L’UNICO «EROE» È SEMPRE IL PARTITO

Tra i colleghi informati da Ai Fen c’era anche Li Wenliang, l’oftalmologo morto il 6 febbraio di coronavirus. Li, ricevuta la notizia, cercò di informare altri colleghi e venne subito convocato dal comitato disciplinare del suo ospedale che, raccontò in un’intervista a gennaio prima di morire, «mi disse che mi stavo sbagliando. Poi mi chiese di scrivere un documento di autocritica per aver diffuso notizie false». Altri cinque medici subirono la stessa sorte.

La pandemia poteva essere fermata in tempo? Difficile dirlo. Di sicuro se il governo cinese fosse stato trasparente e non avesse punito medici e giornalisti, «molta gente non sarebbe morta», come dichiarato a Tempi dalla famosa scrittrice di Wuhan, Fang Fang. Pechino, infatti, non fece niente fino al 17 gennaio per non compromettere la riunione provinciale del Partito. Poi riconobbe l’esistenza del virus, affermando però (con la complicità dell’Oms) che non si trasmetteva da persona a persona. Infine, impose il lockdown a 11 milioni di persone.

A settembre, nella Grande sala del popolo a Pechino, Xi Jinping ha onorato gli «eroi» che hanno portato la Cina a vincere «la guerra del popolo» contro il coronavirus. Nella lista era assente Li Wenliang, così come erano assenti Ai Fen e i giornalisti arrestati. Sono stati invece premiati dei funzionari del Partito, in perfetta linea con l’iniziativa presa dal segretario comunista di Wuhan, Wang Zhonglin, che lanciò una campagna per «educare la popolazione a mostrare gratitudine verso il Partito comunista».

Fonte: Leone GROTTI | Tempi.it

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