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ULTIMO BANCO – 48. Mattoni per la resistenza

Il secondo anno delle superiori è, se ricordate, occupato dall’ingombrante presenza dei Promessi Sposi che, come se non bastasse, io impartisco ai miei studenti dopo una lettura antologica dell’Eneide. Il poema è in perfetta compagnia del romanzo più odiato dagli Italiani perché sia l’uno che l’altro si interrogano sul mistero della storia: chi la guida? Il caso? La provvidenza? Il fato? C’è o ci sarà una giustizia? Qualunque sia la risposta, le due opere grondano di conseguenze: le lacrime degli uomini. Infatti Enea, Renzo e Lucia perdono tutto. Due opere, così lontane nel tempo, non solo ci narrano che la ricerca del proprio destino è inscindibile dalla perdita di qualcosa, ma anche che proprio in quel destino si trova il coraggio per «r-esistere». Dove trovare oggi le forze che Virgilio e Manzoni traevano dalla fiducia in una storia guidata per l’uno dal Fato e per l’altro dalla Provvidenza? Possiamo noi, senza uno sguardo trascendente, resistere al male, alla fatica, al dolore? Bastano le nostre forze? Chi non ha una ragione per esistere, può trovarne una per resistere?

Nel secondo verso dell’Eneide il nostro eroe viene definito «profugo a causa del fato». Fato deriva da una radice verbale che indicava un dire autorevole, proprio del divino, che ha quindi effetti sulla realtà: il destino. La stessa radice si ritrova in favola, lo spazio in cui si narra l’incontro dell’uomo con il suo destino: sin da bambini amiamo le storie perché ci ricordano che vivere è andare incontro al proprio. Viverlo nelle ipotesi narrative ci prepara, ci allena, smorza la paura, ci consola e ci ricorda che la vita è la somma di un «dato di fatto» che non scegliamo e «un dato da compiere» che dipende dalle nostre scelte. Da quella stessa radice viene anche la parola fama, un dire che sembra autorevole, ma lo è per mera quantità di voci. Ci travolge per accumulo, ci convince di un obiettivo che non è autentico né nostro, ma è imposto dal potere, dalla propaganda, da quello che tutti dicono o fanno. Per questo spesso entriamo in crisi, perché inseguiamo, senza rendercene conto, i «miraggi della fama»: i canoni di bellezza che torturano i corpi, l’ossessione del successo, del consenso e dei risultati che torturano le anime, la velocità e il consumo come stile di vita… Miraggi di destino che tracciano vie sulle quali alla lunga non riusciamo a «resistere», per il semplice fatto che non ci fanno «esistere». L’unico destino in cui possiamo resistere è quello che ci fa esistere, si chiama vocazione e lo si riconosce perché ci dà più vita e consistenza, come accade a Enea, Renzo e Lucia. Per questo Andrea Marcolongo nel suo splendido libro sul poema virgiliano scrive: «Solo una cosa significa essere Enea. Alla distruzione rispondere: ricostruzione. Questa è la sua lezione… L’Eneide racconta come, da tutto questo spargimento di vivere, non ci si può tirare fuori. Bisogna resistere invece, e ancora. Fino alla fine» (La lezione di Enea). Similmente Ezio Raimondi, in un saggio meraviglioso, trasportava I Promessi Sposi dalla insufficiente definizione di romanzo della provvidenza a quella di romanzo sul mistero della storia, perché Renzo e Lucia scoprono «che il dolore del mondo non si spiega da solo e la fiducia in Dio rimane la sola difesa contro la violenza e l’assurdo, nel viaggio misterioso sulla terra. Ma proprio in questa fiducia consiste poi la pazienza, la giustizia per cui l’uomo può soffrire e sentirsi fratello degli oppressi, anche se la paura gli è nota più del coraggio» (Il romanzo senza idillio). Dove finisce la ricerca dei personaggi inizia quella del lettore: due storie da leggere ai quindicenni di oggi perché scoprano anzitempo che possono resistere solo se imparano a esistere. Ma per esistere ci vuole una ragione e la ragione è sempre l’amore. Enea resiste per amore della famiglia, della città e degli dei. Renzo e Lucia per amore l’uno dell’altra e di Dio. E noi?

Una civiltà si giudica dai suoi amori: la nostra quali ci propone? Bastano a darci vita: seduzione, successo, potere, accumulo? O sono solo miraggi di destini, resi allettanti dalla fama? Noi esistiamo nella misura in cui siamo amati e amiamo, questa è l’unica via capace di darci il coraggio necessario per vivere e affrontare quelle che Virgilio chiama «le lacrime delle cose» e Manzoni «guai»: tutto il resto se non è tempo perso, è tempo che si perderà. In momenti burrascosi come quelli che viviamo abbiamo bisogno dei classici, e non per una devozione da museo, ma perché classici sono i libri che sopravvivono alla prova del tempo, essendo riusciti a proteggere il destino dell’uomo dai suoi miraggi. Un classico, parola latina derivante probabilmente da un verbo che significava chiamare, è un appello a non perdere ciò che è umano nell’uomo, ciò che in lui permane: per chi e cosa val la pena vivere? Prendere in mano un classico è sì prendere un «mattone»… ma per la «r-esistenza».

Fonte: Corriere.it

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