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Il cigno, l’infermiera e lo spazzino

«Ho finito di leggere Ciò che inferno non è, ma nella mia vita ultimamente ho difficoltà a vedere, nell’inferno, ciò che inferno non è e questo è pericoloso per me, che sono mamma di tre figli. Non ho vissuto una vita ovattata, il contesto in cui sono cresciuta è equivalente al degrado del quartiere descritto nel libro, ma il sorriso e la speranza, che non mi sono mai mancati, ora invece, nelle brutture odierne, vacillano, facendomi pensare che forse non è stata la migliore delle idee mettere a questo mondo marcio i miei ancora ignari figli. Come ritrovare il coraggio e la “leggerezza attenta” di cercare il bello anche dove non sembra esserci?».

Questo messaggio ricevuto di recente mi ha costretto a chiedermi se esiste un metodo per trovare gioia dove non sembra che ci sia, se ci sia ancora la possibilità di scorgere un cigno in mezzo alla polvere e all’immondizia della città, come racconta Charles Baudelaire in una delle sue poesie più belle. Siamo sicuri che questo mondo sia così marcio o più marcio di quello di prima? E se invece di aspettare l’apparizione del cigno fossimo noi a poterlo far apparire? Esiste un metodo per sperare anche nella disperazione amplificata da una comunicazione che, drogata dai click, predilige la sovraesposizione del marcio e crea un effetto depressivo? Provo a rispondere con due storie vere in cui mi sono imbattuto di recente.

La prima è quella di Cicely Saunders, una ragazza londinese avviata agli studi di economia a Oxford, che, durante la Seconda Guerra mondiale, incapace di stare a guardare, si arruola come infermiera per curare i feriti che giungono dal fronte. Trova l’inferno: centinaia di coetanei che muoiono tra atroci sofferenze. Invece di scoraggiarsi di fronte all’impossibilità di salvarli, comincia a studiare la situazione e scopre che per lenire la sofferenza dei moribondi non bastano le cure fisiche, bisogna curare la loro disperazione. Farà di questo la ragione della sua esistenza: trovata la sua vera vocazione, comincerà a studiare medicina a 33 anni e aprirà nel 1967 il primo Hospice moderno, dove non si va a morire ma a vivere bene sino all’ultimo istante. Le cure palliative create dalla dottoressa Saunders sono oggi un punto di riferimento a livello mondiale per la cura dei malati terminali.

Ho conosciuto la storia grazie al recente romanzo di Emmanuel Exitu, intitolato Di cosa è fatta la speranza. È proprio in mezzo all’inferno che Saunders inventa il nuovo: «La speranza è il modo peggiore di affrontare la vita. Naturalmente se si escludono tutti gli altri, che sono molto peggio». La frase che apre il libro è paradossale quanto vera. La speranza non è una tecnica di suggestione per vedere le cose come non sono, anzi è la capacità di stare talmente dentro e di fronte al presente da innamorarsene. In questo senso la speranza «è il modo peggiore di affrontare la vita» perché è impegnativa, ma «tutti gli altri sono molto peggio» perché escludono la creatività e la libertà, l’azione da protagonisti. Cicely Saunders fu visionaria perché sperava, essere visionario non significa avere visioni ma prestare attenzione fino a scorgere il possibile dove tutti vedono l’impossibile.

Nel capitolo che dà il titolo al libro, l’autore elenca gli ingredienti della speranza, e sono tutte quelle cose e persone che i malati terminali hanno care e che il personale dell’hospice procura loro: da un whisky con ghiaccio tritato a un cucciolo d’elefante, perché «la speranza è fatta di cose che hanno bisogno di qualcuno che le faccia accadere». Quindi il mio primo consiglio è essere una di quelle persone che le fanno accadere, essere visionari nel qui e ora. Altrimenti ci si consegna alla disperazione che è proprio ciò che impedisce di vedere. Se Saunders avesse pensato: prima, a casa, «ho i miei studi che m’importa di chi muore in guerra», e dopo, in corsia, «tanto è tutto inutile» non avrebbe inventato le pratiche che oggi rendono umana anche la morte inevitabile (la morfina veniva data solo su richiesta; i parenti non erano coinvolti e aiutati ad affrontare il lutto…).

La seconda storia vera è narrata dal protagonista, Michel Simonet: spazzino per vocazione. Ogni mattina, all’alba, da trent’anni, mette una rosa fresca sul suo carretto come un vessillo: è felice di rendere bella la sua città, portare a casa ciò che serve alla famiglia e far vivere meglio i suoi concittadini. Trova il bello anche in mezzo alla sporcizia, fosse anche solo la strada pulita dopo il suo passaggio. Il suo diario di strada fa vedere come ciò che conta nella vita non è innanzitutto il lavoro che si fa, ma perché e per chi lo si fa. Così la sporcizia diventa occasione di quotidiane scoperte e relazioni. Per Simonet la strada è il luogo in cui far accadere la speranza: fatto con e per amore il suo lavoro diventa ricco di possibilità inattese (anche diventare scrittore) e non prigione da cui fuggire.

Allora la seconda cosa che suggerirei è continuare a mettere al mondo e sempre di più i tre figli, proprio in un mondo marcio (quando il mondo non lo è stato? Però oggi il marcio ci viene sbattuto in faccia con più frequenza da quella che è una vera e propria infodemia). E poiché i figli si mettono al mondo in due, sono quei due che continueranno a metterli al mondo. Noi siamo le relazioni in cui siamo cresciuti. Dall’amore dei genitori e di chi lo educa dipende la fiducia con cui un bambino guarda la realtà, dalla cura che gli viene data dipende il suo sistema immunitario non solo fisico, ma anche psichico, che è la speranza, cioè saper stare nel presente senza soccombere (abbiamo bisogno di ricevere più amore di quanto male ci arriva) e senza fuggire (la tecnologia oggi offre un comodo altrove in cui rifugiarsi).

Quei figli non vanno difesi dal mondo, perché saranno loro a portare nel mondo un mondo nuovo, che hanno sperimentato a casa. A noi non è chiesto di salvare il mondo ma lo spazio in cui ci muoviamo, come narra Simonet: «Non sono mai le meraviglie a mancare, ma la capacità di meravigliarsi attraverso tutti i sensi, che invece possono appagare con ben poca spesa. La strada ci rende semplici. Abbiamo la capienza di un ditale o di una cisterna? Ciò che conta è la pienezza» (M.Simonet, Lo spazzino e la rosa). Non importa quanto il mondo sia sporco, ma quanto siamo amati e amiamo. Parola di spazzino.

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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