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La paura della libertà

L’amore per la libertà non è scontato. Certo, tutti ne parlano. E, a parole, non c’è chi non lo esalti. Ma poi, nei fatti, le cose sono più difficili. La libertà è impegnativa, costosa e non può sottrarsi al rischio che la vita porta con sé. E proprio per questo, la libertà è sempre a rischio di rovesciarsi nel suo contrario.

È già successo nel secolo scorso. Lo scriveva nel 1941 Eric Fromm, con un libro dal titolo amaro: “Fuga dalla libertà”. E purtroppo, la chiave di lettura usata per spiegare perché il popolo tedesco accettò di sottomettersi al regime nazista suona ancora oggi attualissima. Un secolo dopo, finita la stagione esaltante della globalizzazione espansiva – quando sembrò che la libertà di tutti potesse crescere illimitatamente – il mondo si sta avvitando in una spirale pericolosa. Al di là di tante differenze, si osserva infatti una convergenza di fondo: un po’ ovunque, la libertà viene messa in questione.

La storia è antica, tanto che ne parla anche la Bibbia. Le stagioni in cui la libertà si espande vigorosamente rischiano sempre di rovesciarsi nel loro contrario: quando prevale la paura – generata dagli squilibri che spesso la libertà porta con sé – ci si affida volentieri alle rassicurazioni promesse da tiranno o dal vitello d’oro. È la via che Etienne La Boetie ha causticamente chiamato “servitù volontaria”.

Fuori dall’Occidente, le autocrazie spadroneggiano. Il pur significativo miglioramento delle condizioni di vita di centinaia di milioni di persone in tante zone del mondo non si è accompagnato con lo sviluppo di istituzioni democratiche.

Non basta la crescita economica per creare una cultura di giustizia e legalità. Anzi, le autocrazie cercano di legittimarsi come forma politica capace di tenere insieme crescita economica e obbligazione sociale, ordine e libertà. E quando il gioco si rivela truccato – come nel caso della Russia, dove la crescita degli ultimi anni ha arricchito solo pochi – il ricorso alla guerra diventa quasi una via obbligata. La logica antica dello scontro amico-nemico è sempre un ottimo collante, che distrae dai problemi e dalle disuguaglianze. Dietro le bandiere del nazionalismo, il popolo si ricompatta. E chi non si allinea è un traditore. A resistere sono in pochi: voci isolate di eroi che non cedono. E che proprio per questo risultano insopportabili. Come abbiamo drammaticamente visto in questi giorni con l’uccisione di Navalny. Voce libera che accusava il regime di Putin.

Ma tendenze simili attraversano anche l’occidente. Da quando, dopo il 2008, la crescita economica non è più stata in grado di dare soddisfazione a tutti (obiettivo peraltro irrealistico e improprio) interi strati sociali – specie giovanili – in Italia come in Germania, in Francia come negli Stati Uniti, sono attirati dalle sirene di partiti di estrema destra e da leader politici che fanno dell’odio e del rancore le risorse principali con cui costruire il consenso. D’altra parte, un modello di crescita che ha rinunciato alla solidarietà sociale e al rispetto della vita non può che accrescere un senso diffuso di insicurezza e risentimento. Ma la questione non si limita a questi ceti. Di fronte a società profondamente disgregate ci sono interi pezzi delle élites che sembrano abbracciare la guerra come via di fuga dai tanti problemi da risolvere. Sempre più spesso, e sempre più apertamente, l’uso della forza viene presentato come inevitabile. L’unico mezzo (paradossale) per “difendere la libertà”.

Occorre rendersi conto che siamo entrati in una nuova fase storica. Non più quella luminosa e ingenua di una globalizzazione della crescita economica e della libertà per tutti. Ma quella ben più oscura e preoccupante dello scontro sistemico, dove la libertà può e deve essere sacrificata a qualche fine superiore. Speriamo di riuscire a fermare questa spirale. Ma sarà difficile se non ne capiamo la vera radice. La paura della libertà e la sua implosione si affermano tutte le volte in cui questo termine viene tradotto in una logica individualistica: dove il destino dei ricchi si separa da quello dei poveri; dove la libera iniziativa diventa sfruttamento dell’altro; dove lo straniero diventa nemico; dove la libertà dimentica il legame profondo che lega gli uni agli altri. Trent’anni di globalizzazione selvaggia rischiano di sfociare in un grande conflitto globale.

La paura della libertà che sembra diffondersi un po’ dappertutto si cura solo tornando a riconoscere (prima) e a prendersi cura (poi) di quel “bene comune”, a livello nazionale e internazionale, che abbiamo per troppo tempo trascurato. La libertà – degli individui, delle imprese, dello Stato – non si rovescia nel suo contrario quando è capace di fermarsi e di ascoltare lo voce – che qualche volta diventa grido – dell’altro.

Fonte: Mauro Magatti | Avvenire.it

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