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Costanza Miriano e il suo libro, impossibile e necessario, sul senso della sofferenza

Non si può dire niente di sensato sulla sofferenza, sul perché delle croci; eppure bisogna dirlo, e bisogna farlo con la sola parola che sia a nostra disposizione: Cristo stesso. Un libro bellissimo, profondo, leggero, esilarante, rispettoso. Necessario e insieme impossibile..

Ci sono arrivata ormai alla fine del libro, eppure la struttura è evidentissima, fin da subito (e a questo punto anche la mia spero temporanea ottusità). Ad ogni storia di sofferenza incontrata e presentata Costanza associa quella di un santo. No, non associa soltanto: la mette davanti alla persona, quella della storia e quella di te che leggi, come uno specchio ri-formante.  E così quello che a occhi solo umani, quindi piuttosto miopi o ipermetropi, insomma occhi che non sanno mettere a fuoco come serve, verrebbe liquidato come un “poraccio, a questo/a è andata piuttosto male!”, diventa invece una scoperta. Di sé, degli altri, del senso della propria vita personale, del senso addirittura di quella universale e cosmica. Del senso di ciò che è talmente impossibile spiegare che non ci si è messo nemmeno Dio: il dolore.

Altro che quelli di HM o Zara che ti fanno sembrare più alta, proporzionata e volendo anche giovane. Questi specchi ti fanno sembrare come sei destinato ad essere e già nascostamente sei, cioè eterno.

E’ il settimo libro edito da Sonzogno per Costanza Miriano e assomiglia agli altri per stile, intensità, ricchezza di citazioni e precisione dei riferimenti, ma soprattutto trovate esilaranti (lo voglio anche io Ottavio, il ghiro di qualche etto appoggiato non mi ricordo più dove che pesa come tutto il mio senso di colpa!). Ma, se mi posso permettere, rispecchia soprattutto la crescita personale e spirituale dell’autrice. Non avrebbe potuto scriverlo prima di ora, credo, questo; più breve e agile, più profondo.

E’ anche il libro più necessario e difficile perché non c’è tema urgente come quello del male e del dolore, soprattutto quello innocente, e non c’è argomento meno furbo e accattivante di questo. Eppure, ve lo dico con tutta la mia strutturale diffidenza per le catechesi sul dolore, le riflessioni, le risonanze e tutto ciò che significhi ragionare intorno al dolore seduti comodi in poltrona, Costanza ci è riuscita. Proprio perché fa i conti con tutto questo: l’indicibilità, l’inspiegabilità, la repellenza persino che ogni dolore, ogni croce, qualsiasi prova suscitano naturalmente  – e vivaddio- in ognuno di noi ( che sia sano di mente o non ancora canonizzato).

In copertina campeggia un meraviglioso intreccio di rovi rossi e rosa, carichi di spine; alcune gocciolanti sangue. E sono lì ad incoronare una frase che se non fosse vera sarebbe molesta.

Niente di ciò che soffri andrà perduto, sottotitolo, mistica della vita quotidiana: ovvero l’unica vita possibile, il solo tragitto che ti sia dato percorrere per arrivare a destinazione e addirittura goderti il viaggio. Nessun ricalcolo, nessun percorso più rapido, con meno traffico, senza pedaggi, privo di autovelox, nessuna alternativa esclusivamente panoramica. Nelle nostre esistenze fatte di quotidiano che stringe a volte come le spire di un boa constrictor c’è sempre tutto: il traffico, il pedaggio, gli intoppi, gli incidenti. E per chi è di Roma, come l’autrice, anche le buche nel manto stradale. Ma anche venissimo inghiottiti da una voragine, assicura Costanza, potremmo sonnecchiare come bimbi di pochi mesi, insalamati in un bel pigiamotto di ciniglia e spatasciati sulla pancia del papà, cullati dal suo respiro (svegliati parzialmente, forse, da un lieve russare. Dipende dal tipo di papà e dall’inclinazione della trachea nel suo pratico insaccarsi nel divano).

Sembriamo matti, noi cristiani. Come strilloni poco credibili urliamo il titolo da prima pagina della nostra buona notizia del Regno di Dio: ” venite, venite, solo la Chiesa offre il passaggio alla vita eterna e alla felicità senza fine, su affrettatevi, siamo quelli della gioia noialtri!”; e poi, già da pagina due, non facciamo altro che elencare sofferenze, spoliazioni, dolori, tradimenti, mortificazioni.

Ed è  proprio con la carta da giornale che Costanza inizia a presentarci lo stile di Dio, del nostro Dio, quello capace di un amore personale, preferenziale e sconfinato, il solo in grado di renderci felici. E’ infatti un Dio ricchissimo e generosissimo che non vede l’ora di coprirci di beni ma che, forse per la fretta? ce li incarta nelle pagine di un giornale già letto, usato, possibilmente tutto stropicciato e sporco di unto.

Erano diversi giorni che meditavo su come parlare di questo libro e ogni tanto mi balenava in mente un qualche attacco vivace e stuzzicante. Ma alla fine non conta, dovete leggerlo, godervi tutte quelle storie nascoste ed eroiche che Costanza ha saputo appuntarsi per noi e leggerle sub specie aeternitatis e sempre con una leggerezza tanto balsamica per le nostre vie respiratorie così impedite, di questi tempi; e dovete seguire tutti i collegamenti ipertestuali che portano alle vite dei santi che ha intrecciato alle vite di quelle persone normali, colpite da croci normali o straordinarie, ma ancora nascoste; alcuni di questi santi sono classici altri meno noti, qualcuno addirittura “solo” nella vox populi. Incontrerete Caterina, la prima amica di cui Costanza quasi “studia” la sofferenza per rubarne il segreto, che l’ha colpita proprio alla radice della vita ma senza abbrutirla, anzi! Perché la scala per risalire da abissi difficili anche solo da pensare, come la violenza di un padre, è sempre appesa al Cielo. Vi imbatterete in Gabriella e nel suo matrimonio pressoché perfetto fino a che una specie di treno ad alta velocità non le è passato sui piedi. Seduta sul divano accanto al marito si imbatte in un messaggio e nel tradimento che esso inequivocabilmente rivela; ma mentre la croce crolla sulle spalle di questa donna un’altra donna le si fa vicino e la aiuta a portarla: è una santa poco conosciuta ma con una storia e dei carismi eccezionali, Elisabetta Canori Mora; l’accostamento più bello che ho trovato in questa teoria di dolori e eroismo cristiano nascosto in insospettabili vite normali è quello tra Elena e santa Bakita, anche lei dono recente di nostra madre, la Chiesa:

Con un matrimonio a un soffio dal fallimento, anzi, sostanzialmente già fallito – esattamente come quello il padre con le case pignorate, i creditori spariti e le amanti che continuavano a darsi il cambio -, anche per Elena è arrivata la liberazione. E’ arrivata sotto forma di infarto. (Niente di ciò che soffri andrà perduto, p. 98)

Ora ditemi se non è da pazzi ragionare così. No, non lo è perché con Cristo la croce non mortifica e basta, non tortura e basta, non uccide e basta. Ma salva e guarisce e, da dirsi sapendo che la cosa sarà accolta con l’entusiasmo di una cartella di Equitalia, supplisce alle mancanze di altri, ripara ad un male di cui non siamo – direttamente – responsabili.

Ma tra tutti i santi-sponsor messi da Costanza a sostenere le storie di persone normali, come me e come te, i miei due preferiti sono una circa a metà del libro e l’altro alla fine: Benedetta Bianchi Porro e David Buggi.

Benedetta perché è la mia santa di Sirmione, quella che noi scolari del Comune studiavamo ogni anno nelle ore di religione, almeno fino a che c’è stato da noi il Don Vittorio. Benedetta è una santa talmente all’avanguardia che la Chiesa non poteva che aspettare fino ad ora per proporcela con maggiore solennità e per opporla come una diga di fede e abbandono fanciullesco in Dio alla tracotante e ininterrotta adolescenza del mondo di oggi. Lei che avrebbe vinto metà dei talent reality qualcosa show di oggi per il numero di doti e il grado al quale le possedeva si è fatta spogliare di tutto, udito, vista, tatto, gusto, denti, bellezza (che poi lasciò trasparire dal suo personale Tabor poco prima della morte!), e così ha potuto essere rivestita da Cristo, anzi di Cristo. Che spettacolo.

E di David Buggi non dico niente se non di rivedervi per la centesima volta il video della sua vita come ha fatto Costanza. E di chiedere senza timore anche la sua intercessione, soprattutto per i giovani, per i quali ha offerto la sua malattia, i dolori atroci che ha sopportato, la rinuncia a tutte le prospettive così belle che la sua esistenza gli stava presentando.

Era un ragazzo di 16 anni quando il tumore si è presentato e lui, dopo aver provato a respingerlo, ha sentito cosa aveva da dirgli. Ha scoperto che in quella diagnosi e in quello scampolo di vita che si trovava ancora da percorrere c’era un messaggio d’amore di Dio, suo Padre, un Dio che vuole solo la nostra felicità.

Sì, sembriamo matti, ma è la follia della croce, è il mistero della redenzione che non capiremo mai con la mente soltanto ma di cui, altrettanto misteriosamente, siamo anche noi capaci.

Fonte: Aleteia.org

 

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