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ULTIMO BANCO – 47. Clarisse

«Incredibile, la capacità d’identificazione di quella ragazza! Era come l’appassionata spettatrice d’uno spettacolo di burattini, che prevede ogni batter di palpebre, ogni gesto della mano, ogni movimento d’un dito un istante prima che lo spettacolo cominci». Sono le parole con cui Guy Montag, il protagonista di Fahrenheit 451, descrive Clarisse, la diciassettenne che lo guarisce dalla sua cecità: egli vive in un mondo in cui gli uomini si credono liberi ma sono diventati dei burattini. Montag lavora infatti in un corpo di pompieri che non devono spegnere incendi ma dar fuoco a degli oggetti considerati pericolosissimi, perché costringono le persone a ricordare chi sono e per quale ragione respirano: i libri (il titolo del romanzo viene dalla temperatura necessaria a far bruciare la carta).

Il brano su Clarisse che ho riportato è stato scelto da una mia studentessa alle prese con un tema incentrato sul passo che li aveva più colpiti. Durante l’estate infatti, ho fatto leggere agli studenti di prima superiore tre libri incentrati su un pericolo che li minaccia oggi più che mai: la privazione progressiva e inconsapevole della libertà, che scorgo nella loro crescente difficoltà a prendere decisioni, anche le più piccole, lasciando la scelta agli altri o al caso.

I libri sono Open, Fahrenheit 451 e La fattoria degli animali. Volevo che i miei ragazzi vivessero l’esperienza di perdere la libertà in tre ambiti vitali (famiglia, cultura e politica), e scoprissero che può accadere inconsapevolmente, come ai protagonisti di queste storie, scivolati nella schiavitù senza rendersene conto.

Come? Hanno rinunciato alla verità.

Per vivere bisogna fare scelte e le scelte dipendono sempre dalle convinzioni che ci muovono, e quando non ne abbiamo perché abbiamo rinunciato a decidere per chi e cosa viviamo, finiamo con l’assorbire le «opinioni dominanti». Chi sceglie le «verità di maggioranza» spesso sceglie il potere non la verità, perché ci tranquillizza essere parte di qualcosa di più grande, avere una parte nel grande spettacolo. Montag, per esempio, non ha mai messo in discussione il suo lavoro e il mo(n)do in cui vive, né l’avrebbe fatto senza Clarisse.

La mia studentessa dice di avere scelto il passo su di lei perché, come accade a Montag, sta perdendo «l’attenzione». Il pompiere poche righe prima ha paragonato Clarisse a uno specchio che gli permette di vedere la verità su se stesso, la ragazza ha infatti un nome parlante (da clarus): chiaro, trasparente, puro. Grazie a lei l’uomo scopre perché è infelice e comincia a lottare… e una quattordicenne di oggi ha nostalgia di questa «chiarezza» e dice che l’ha persa a causa della «disattenzione». I nostri occhi sono ben aperti ma dedicati a chi li sa sedurre, anziché alla realtà. La rete si è accaparrata in modo «spettacolare» la nostra attenzione, che serve a profilare i nostri comportamenti e a orientarli, per venderci prodotti e convinzioni (se qualcosa è gratis il prodotto sei tu, come mostra il documentario The social dilemma).

L’algoritmo che governa Google o i social costruisce attorno a noi uno spettacolo che scambiamo per il mondo (una ricerca dà risultati diversi per ciascuno): il tribalismo è la paradossale conseguenza del villaggio globale.

Abbiamo scelto, senza rendercene conto, di regalare la nostra attenzione a chi sa come usarla e manipolarla. Questo colpisce soprattutto la generazione che ha un cellulare in mano sin dall’infanzia: vi siete mai chiesti perché 13 anni sia la soglia per aprire un profilo Instagram? Perché ogni sito che aprite vi chiede di «accettare» i cookies? Perché Steve Jobs impediva l’uso degli oggetti che creava ai suoi figli?

Adesso le conseguenze cominciano a essere evidenti e rilevanti a livello psicologico e sociale: gli adolescenti sono sempre meno inclini a rischiare, scoprire, fare scelte, mettersi in gioco, relazionarsi perché sono ipnotizzati da uno spettacolo che li riempie e dà dipendenza. L’espropriazione dell’attenzione (dal latino tendere a) non permette di incontrare la realtà, che è necessaria per scoprire chi siamo, i nostri limiti e la nostra grandezza. Senza attenzione, che è la «presenza del presente», il nostro io si disincarna, non sa più agire e comincia ad avere paura del mondo.

Ritrovare l’attenzione è necessario per ritrovare se stessi e ribellarsi alla dolce schiavitù che ci consegna al vuoto spettacolare del consumismo. Clarisse è il nome dei nostri incontri con la realtà: un libro, un giorno senza cellulare, una passeggiata in cui scoprire che alberi e nuvole esistono ancora, una chiacchierata a cuore aperto con un amico… e tutte quelle cose che rafforzano la nostra resistenza interiore a ogni forma di dominio. Il segreto di Clarisse è la famiglia: non hanno televisori, parlano tra loro, sono liberi da ogni manipolazione. Per sapere che fine fa leggete il libro.

Fonte: Alesssandro D’Avenia | Corriere.it

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