Conosco pochi libri che, come questo, sono capaci di esprimere lo squallore della nostra miseria. Eppure, si tratta di una miseria in cui emerge sempre un barlume di umano. Nel “prete spugna” che sentendo di aver tradito la fede non smette di riferirsi con affetto alle parole della liturgia, nel sacerdote José che per aver salva la vita si è sposato, persino nel meticcio che si avvicina al protagonista per condurlo in trappola, Greene sa cogliere la cifra dell’uomo che, anche quando lo nega, anela all’Amore di Dio.
Persino il paesaggio afoso e assolato, abitato da uomini che hanno dimenticato la propria umanità, è percorso da un’ineluttabile mancanza, un grido che nell’anima ferita del prete trova le parole per esprimersi in preghiera. E allora, la grande promessa si compie quasi a dispetto dell’incoerenza: Dio fa di quel poco di buono, di quel prete ubriacone che si sente perennemente in stato di perdizione, lo strumento imperfetto della Sua misericordia.
Sono meravigliose le pagine in cui il prete, messo davanti al frutto del proprio peccato – il volto insolente della propria illegittima figlia – si preoccupa per lei e per il suo destino, e darebbe la propria vita perché Dio salvasse l’anima di quella bimba nata già perduta. Il finale è il compimento, commovente, di questa misericordia inesorabile: Dio non dimentica la Sua promessa, ma trasforma la nostra miseria in strumento paradossale di redenzione.
Fonte: Francesco Fadigati | Clonline.org