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Fiocchi di cotone, burro di karité e quel Centrafrica che non si arrende
— 7 Settembre 2020— pubblicato da Redazione. —
Nel paese più povero del mondo c’è un “piccolo esercito” che non si dà per vinto. Preti e seminaristi che affrontano la vita con fede
Notiziario dal Carmel di Bangui n° 28, 7 Settembre 2020 – Arrendersi in Centrafrica è abbastanza facile. Capita anche ai più ostinati. Ma c’è un piccolo esercito di uomini e donne, centrafricani di nascita o d’adozione, che si rifiutano di gettare la spugna e che, senza far troppo parlare di sé, combattono per un Centrafrica migliore. Un Centrafrica diverso da quello raccontato dalle cronache di questi sessant’anni d’indipendenza da poco compiuti. Ogni viaggio, sempre in compagnia dei miei giovani seminaristi, è sempre l’occasione per incontrare alcuni di questi inconsapevoli eroi. Vorrei farveli conoscere.
Nel mese di febbraio siamo stati a Bossangoa, un’importante città nel nord del Centrafrica, dove ci accoglie abbé Brice, un giovane sacerdote diocesano. Quando in Centrafrica c’è un colpo di stato – e in questi sessant’anni non sono certo mancati – Bossangoa è la prima città a subire distruzioni e saccheggi. E ogni volta Abbé Brice e i suoi confratelli non si arrendono e raccolgono la sfida di ricostruire questa piccola chiesa nella savana, dove i missionari sono ormai molto rari.
Solo da poco tempo sono ritornati i Cappuccini. A causa delle guerra, questi religiosi, che tanto hanno contribuito all’evangelizzazione del Centrafrica, erano stati costretti ad abbandonare la missione di Gofo, completamente distrutta. Padre Michel, padre Antonino e fra Roland non si sono arresi e con coraggio e tenacia ora ripartono dalla piccola missione di Notre Dame de l’Ouham.
A Bossangoa c’è anche una delle pochissime industrie del paese: un cotonificio di proprietà dello stato. Abbiamo la fortuna di visitarlo durante la produzione. Vi lavorano diversi operai, anche se da più di un anno non ricevono alcun stipendio. Anche loro non si arrendono e, pur di non perdere il lavoro e d’impedire la chiusura di una delle poche attività economiche del paese, continuano a produrre cotone.
Un po’ in periferia incontriamo suor Claire. La sua congregazione è stata costretta a lasciare il Centrafrica, ma suor Claire non si è arresa e con alcuni amici, e pochissimi mezzi, ha messo in piedi una scuola di cucito per ragazze e un piccolo centro dove viene prodotto dell’ottimo burro di karité.
Da Bossangoa arriviamo a Bozoum, missione fondata dai padri spiritani nel 1929, e poi diventata la nostra prima missione in Centrafrica, ormai quasi cinquant’anni fa.
Come ogni domenica i miei confratelli sono impegnati nel ministero in parrocchia e nelle chiese nei villaggi. Padre Norberto è arrivato per la prima volta in Centrafrica quarant’anni fa, come muratore volontario. Poi vi è ritornato come sacerdote. Oggi celebra l’Eucaristia con i cristiani di Wara, uno dei villaggi più difficili da raggiungere. Padre Norberto non si arrende e, dopo un’ora di macchina e un’ora a piedi, raggiunge il piccolo villaggio che lo attende da mesi.
Durante il soggiorno a Bozoum decidiamo di scalare una delle rare montagne del paese, un grande roccione che incombe sul piccolo villaggio di Aï. I miei confratelli si dimostrano degni figli del loro fondatore Giovanni della Croce e, pur di arrivare il prima possibile in cima alla montagna, optano con entusiasmo per il percorso più corto e più ripido. Questa volta, in un sussulto di orgoglio carmelitano, tocca a padre Federico non arrendersi. E quindi, pur di non dare ai miei studenti la soddisfazione di vedere il loro padre maestro rimasto ai piedi della montagna, raggiungo il resto del gruppo già in vetta. E per qualche istante, contemplando lo splendido panorama sulla savana, ci sembra di abbracciare con la nostra preghiera l’intero Centrafrica.
Ridiscendiamo dalla montagna e, attraversando il villaggio di Sambay, notiamo attorno ad una capanna alcune persone silenziose e con il volto triste. Ci accorgiamo subito che qualcuno è appena morto. Si tratta, purtroppo, di una bambina, costretta ad arrendersi ad un semplice morbillo. Ci fermiamo e restiamo un po’ con la famiglia. Ed è inevitabile pensare al resto del mondo ossessionato dalla pandemia del coronavirus e che neppure immagina che in Africa, ogni anno, migliaia di bambini muoiano ancora per questa malattia.
Prima di ripartire siamo invitati a pranzo dalla famiglia di fra Gerard. Ci accoglie maman Simone. Ci prepara un delizioso varano che raccoglie grande entusiasmo tra i miei confratelli e un po’ meno da parte del sottoscritto. Maman Simone, pur avendo un figlio carmelitano, è di confessione protestante. Madre di ben dieci figli, dei quali quattro già deceduti, è rimasta vedova da alcuni anni. Anche lei non si è arresa ed ora è contenta di ospitare nella sua piccola casa la nuova e grande famiglia di suo figlio.
Sulla via del ritorno, dopo aver lasciato la missione di Bozoum, ci fermiamo nel villaggio di Bogherà, dove padre Renato, missionario in Centrafrica per più di trent’anni e morto di leucemia alcuni anni fa, e il nostro volontario Enrico hanno costruito una piccola cappellina dedicata al Sacro Cuore. È ormai quasi il tramonto e decidiamo di fermarci per la preghiera. Iniziamo il canto dei Vespri in francese ma, in breve tempo, la piccola chiesa si riempie di uomini, donne e bambini, e siamo quindi costretti a terminare in sango, la lingua locale, tanto è grande il desiderio di questi cristiani di unirsi alla preghiera dei dodici frati improvvisamente arrivati nel loro piccolo villaggio.
Nel mese di luglio ci siamo diretti verso sud, nella foresta del fiume Lobaye. È la stagione dei bruchi che, da queste parti, sono offerti ben cotti a colazione, pranzo e cena. Da ogni angolo della foresta spuntano bambini con secchielli ricolmi di questi simpatici animaletti. Grazie alla loro vendita potranno acquistarsi penne e quaderni per andare a scuola.
A M’baïki incontriamo Mons. Rino Perin, missionario comboniano italiano, da quarantacinque anni in Centrafrica. Nel 1995 è stato nominato vescovo di questa nuova diocesi che, pur essendo una delle più piccole, copre una superficie pari a quella del Piemonte. Al suo arrivo a M’Baïki la diocesi contava quattro parrocchie, nessun sacerdote autoctono e centinaia di pigmei a cui annunciare il Vangelo. Mons. Perin non si è arreso ed è ormai in attesa del suo successore al quale lascerà dieci parrocchie, una quindicina di sacerdoti locali e altrettanti seminaristi.
Per visitare la missione di Bagandou, ancora più a sud, attraversiamo il fiume Lobaye usando come traghetto una grande zattera di ferro legata ad una fune di acciaio sospesa sul fiume. Il motore che dovrebbe spingere il traghetto è in panne. Alcuni giovani, pur di guadagnare qualcosa, non si arrendono e, tirando loro stessi la fune, ci permettono di raggiungere l’altra riva.
Bagandou è un grande villaggio nel cuore della foresta. Ci accoglie a braccia aperte abbé Piotr, un sacerdote polacco. Anche se non avevamo annunciato la nostra visita, ci invita a pranzare con lui. E ci racconta la difficile situazione sociale di Bagandou, dove la stregoneria è difficile da sradicare e moltissimi giovani sono attratti dal guadagno facile della ricerca di oro e diamanti. Abbé Piotr non si arrende e, orgoglioso, ci mostra la nuova chiesa appena costruita e i lavori in corso di una scuola per i pigmei.
Accanto alla parrocchia visitiamo l’ospedale diretto da suor Donata, giovane missionaria comboniana italiana. Non è per nulla facile gestire un ospedale così efficiente in condizioni così precarie. Suor Donata non si è arresa e, giustamente soddisfatta, ci mostra la nuova sala operatoria che eviterà a tanti ammalati viaggi lunghi e faticosi verso ospedali più grandi.
E anche voi, mi raccomando, qualunque sia l’ostacolo, la montagna da scalare o l’imprevisto da affrontare… non arrendetevi. Magari pensando a chi ha un ostacolo, una montagna, un imprevisto più grandi dei nostri.
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