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ULTIMO BANCO : : 21. In memoria di Sophie

«Che cosa hanno fatto?» chiede il bambino tremante osservando i quattro impiccati penzolare sulla piazza della città. «Quello che potevano», risponde la madre con rassegnata fermezza. È una delle scene chiave di Jojo Rabbit, bellissimo film che racconta, con equilibrio raro tra comico e tragico, la Germania nazista dal punto di vista di un bambino di dieci anni appena entrato nella Hitlerjugend, la Gioventù hitleriana. «Quello che potevano» è per me la didascalia del Giorno della Memoria: mette al riparo da una ritualità emotiva che fa sentire buoni, ma senza conseguenze. La «retorica della memoria» mostra foglie e fiori splendenti ma di plastica, a differenza della «memoria viva», una radice che invece genera frutti reali. Ricordare una delle più atroci ingiustizie della storia ha senso se diventa opposizione attiva all’ingiustizia quotidiana. Non si può commemorare la shoah durante la prima ora e, la seconda, dire a uno studente «non vali niente». Le ipocrisie della memoria demoliscono la memoria. Per fare memoria non basta narrare l’olocausto e mostrarne i testimoni, per fare memoria bisogna «farsi» memoria. Per questo voglio raccontare una vicenda memorabile ma meno nota: quella della «Rosa Bianca», un gruppo di studenti che, nel giugno del 1942, per opporsi al regime nazista, al suo apogeo, fecero tutto «quello che potevano». Comprarono a proprie spese un ciclostile, scrissero e distribuirono volantini per risvegliare le coscienze assopite o complici. Li spargevano di nascosto in università e nelle cassette della posta. Al sesto volantino, nel febbraio 1943, la Gestapo li scoprì: erano ragazzi poco più che diciottenni e qualche professore. Tutti torturati, dopo un finto processo, per 15 di loro la sorte fu la ghigliottina, per altri 38 il carcere (vicenda narrata con maestria nel film La Rosa Bianca – Sophie Scholl di Marc Rothemund).

«Opponete la resistenza passiva ovunque voi siate» diceva il primo opuscolo e dell’eccidio degli ebrei, che la gente fingeva di non vedere, rivelava senza mezzi termini: «Vediamo compiersi il peggior crimine contro la dignità umana, non ha confronti nell’intera storia. Perché il popolo tedesco è rimasto così inerte? Attraverso questo atteggiamento apatico ha fornito a uomini malvagi l’opportunità di fare ciò che hanno fatto». Ogni volantino riportava passi dei classici, da Aristotele a Goethe, dalla Bibbia a Novalis, e si chiudeva con: «Per favore fai più copie che puoi di questo volantino e distribuiscilo». Fai quel che puoi, cioè tutto il possibile, in prima persona. Il prezzo fu la vita per i fondatori del movimento, i due fratelli Scholl. All’esecuzione capitale, Hans, 24 anni, urlò: «Libertà!»; e Sophie, 22, disse: «Una giornata di sole così bella, e io me ne devo andare. Ma che importa la mia morte, se attraverso di noi migliaia di persone si sono risvegliate?». Aveva ragione: di lì a poco saranno gli aerei inglesi a far piovere i volantini della Rosa Bianca sulle città tedesche. Già al funzionario che le chiedeva se fosse pentita, Sophie aveva risposto: «Al contrario! Credo di aver fatto la cosa migliore per il mio popolo e per tutti gli uomini». Da dove veniva tale fermezza?

Erano un gruppo di compagni di scuola, il liceo di Ulm, legati da amicizia, cultura e fede. All’inizio la loro fu una «opposizione interiore»: entravano a scuola, nottetempo, per leggere insieme opere letterarie, in particolare quelle vietate dal regime. Erano stati segnati da Socrate, ucciso per mostrare ai suoi discepoli che una città prospera solo se chi la guida cerca il giusto prima dell’utile: ciò che è bene è utile, non viceversa. Quei giovani, leggendo nel manifesto di Goebbels, ministro della propaganda nazista: «Bene è tutto ciò che ci aiuta a vincere!», riconobbero subito la menzogna. Per Hitler e i suoi, giusto diventava tutto ciò che portava alla vittoria: qualsiasi cosa era lecita per ottenere potere. Socrate, non Goebbels, diceva il vero: un’azione che garantisce il successo ma non è giusta è un’azione malvagia, da evitare e ostacolare se non si vuole esserne complici. Così la loro «opposizione interiore», maturata nello studio e nell’amicizia, e resa sicura dalla fede, divenne poi «resistenza passiva»: scrivevano, stampavano, distribuivano gli opuscoli, perché era tutto ciò che potevano fare. Pagarono con la prigione o la vita. Per me memoria è ricordare la resistenza alla shoah e alla guerra fatta da studenti che, sui banchi di scuola e nei loro maestri, avevano trovato indipendenza di pensiero e cultura della vita. Non è così in un Paese in cui la scuola langue, vittima di una complice apatia civile e di un’agenda politica dettata da consenso o mantenimento del potere. Per questo credo che serva memorizzare una frase che i ragazzi, a costo della vita, scrissero nel primo volantino: «Non dimenticate che ciascun popolo merita il regime che accetta di sopportare».

Fonte: Corriere.it

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