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Parlare alla disperazione dei bambini. Un formidabile dialogo tra Susanna Tamaro e Amicone

L’educazione nell’epoca dell’indistinto, del totem del benessere, della merenda h24. Appunti dall’intervista pubblica di Luigi Amicone a Susanna Tamaro

 

Proponiamo alcune battute dell’intervista pubblica del fondatore di Tempi Luigi Amicone alla scrittrice Susanna Tamaro che si è svolta venerdì 21 aprile al Teatro Don Bosco di Chioggia nell’ambito della 14esima edizione di “Chioggia Incontra”, manifestazione culturale organizzata dall’associazione Il Fondaco e dedicata quest’anno a “I mille volti del genio femminile” (guarda il video integrale dell’incontro).

Tu sei un tipo riservato. Che cosa ti spinge adesso – domani sarai in una scuola, per dire – a moltiplicare le tue uscite pubbliche?
In questi venti-trent’anni ho fatto pochissime uscite pubbliche rispetto a quelle che avrei potuto fare. Innanzitutto perché sono una persona timida. Poi perché in tutti questi anni ho scritto, e quando si scrive bisogna essere molto concentrati: se si comincia ad andare in giro si perdono tempo, energie, ci si deconcentra. E a un certo punto diventa una forma di droga narcisistica a cui non ho mai voluto cedere. Adesso con La tigre e l’acrobata ho finito un ciclo di scrittura, dunque ho la testa libera e sono più disponibile a incontrare. E poi penso che siamo a un livello di tale confusione nella società, che forse chi ha le idee un po’ più chiare è giusto che parli, soprattutto ai ragazzi, ai bambini, per dare un minimo di indirizzo, [per indicare] da che parte guardare almeno.

Degli aspetti della confusione che tu noti, che percepisci andando in giro, quale ti preoccupa di più?
C’è una confusione spaventosa. Tutto sta andando verso l’indistinto, ma quando arriva l’indistinto è il caos. Non c’è più il maschile e il femminile, non c’è più il giorno e la notte perché ormai i negozi sono aperti fino a mezzanotte, non c’è più il riposo e il lavoro: si lavora anche il giorno di Pasqua. È tutto un grande magma in movimento che crea una specie di massa indistinta in cui una cosa equivale all’altra. Ma tutto l’equilibrio del mondo si regge sulla polarità: il giorno e la notte, il maschile e il femminile, la vita e la morte. Nel momento in cui tu annulli la polarità, vai nel caos. Noi siamo a questo, al caos. Ai bambini viene insegnato il caos, si parla del caos come se fosse ordine. Invece bisogna dire: questo è caos, e noi pensiamo che sia importante ripristinare l’ordine, perché il caos non crea, il caos distrugge. Io vado ogni tanto nelle scuole e vedo che in ogni classe ci sono uno, due o tre bambini con l’insegnante di sostegno. Ma come è possibile che tanti bambini abbiano disturbi neurologici? Non ci sarà dietro un enorme vuoto educativo che si trasforma poi in un disturbo?

È un’osservazione del tuo intervento indimenticabile sul disastro della scuola italiana.
Disastro assoluto.

Quando ero professore, al collegio docenti mi dicevano già a quei tempi, anni Ottanta: «Professore, non deve parlare di educazione, noi non siamo qui per educare, siamo qui per istruire». Erano i miei colleghi della Cgil che ci hanno dato questa tradizione. Mentre l’educazione è tutto un insieme…
Esatto, è tutto un insieme. Le maestre che abbiamo avuto noi negli anni Sessanta erano durissime. Quando vado nelle scuole e racconto delle mie maestre i bambini ridono come pazzi. Però non c’erano i bulli all’epoca, non c’era spazio per i bulli, perché le maestre con due schiaffoni li mettevano a posto. Adesso impazzano [i bulli], perché non c’è nessun ordine, è tutta una follia che genera follia in continuazione.

È la mancanza del senso del limite.
L’idea di base malata, dal punto di vista educativo, è questa: che il bambino sia naturalmente sapiente, che sia naturalmente capace di crescere in armonia. Non è assolutamente vero. I bambini vanno aiutati a crescere, ognuno secondo il suo carattere naturalmente, ma vanno aiutati nel loro cammino, reprimendo le cose negative e esaltando le cose positive, cosa che chiamasi educazione. Questa idea che il bambino è onnisciente, depositario di una sapienza che nessuno può toccare, è una follia che deriva da Rousseau, da tutta questa cattiva educazione, o anche da un mito sentimentale del bambino, e che ci porta alla catastrofe. Questi ragazzi che a 16-17 anni non sono neanche in grado di scrivere una frase in italiano e però passano all’esame di maturità, cosa faranno nella vita? Sarà la vita a fermarli. Gli taglierà le gambe. Questo non va bene: tu che avresti il compito di educarli, di metterli in grado di essere autonomi, di lavorare, stai scaricando il problema sul loro destino individuale.

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Poi li proteggiamo [da tutto]: non devono vedere i morti, non devono vedere la delusione, non devono vedere il dolore, non devono vedere il sangue…
Non devono vedere niente. Ma non rispondere alle grandi domande dei bambini è una tragedia. I bambini vogliono sapere perché si muore, dove si va a finire… Il bambino ha grandi domande a cui si deve cercare di rispondere in modo più o meno consapevole. Se tu non gli rispondi e cancelli quella parte della vita, lo metti in uno stato di ansia. Se tu che sei grande non gli sai dire come vanno le cose, come può farlo lui che è piccolo? E così si fa educare dai media, ad esempio.

Domani andrai a Ferrara in una scuola a cui hai fatto leggere Etty Hillesum. Perché?
Forse si saranno anche scandalizzati, non lo so, perché c’è anche molto sesso lì dentro… però Etty era una persona estremamente viva, curiosa, in continua trasformazione, in movimento. Ha avuto una vita molto breve ma piena di ricchezza, di apertura, di passione. Allora in questo mondo di apatia, di banalità, di ricerca del benessere, mi sembra che far leggere a dei liceali il diario di una ragazza poco più grande di loro ma con quella ricchezza interiore, può essere un modo per aprirgli delle porte.

Qui ci sono molti ragazzi. Perché sei così attaccata a loro? Se dovessi dir loro una cosa essenziale, nel caso in cui non doveste rivedervi mai più, cosa diresti?
Io in fondo sono rimasta molto infantile dentro di me, nel senso più sano del termine: la capacità di stupirsi, di meravigliarsi, di libertà. Sto molto bene con i ragazzi. E penso che ai ragazzi adesso bisogna offrire questa possibilità di vedere una vita che può essere libera. Non può essere una vita costretta dai media, da quelli [che ti dicono] cosa devi fare. Pensate solo alle ragazze, a quanto sono costrette a pensare all’apparenza fisica e quanto questa le determini nella felicità o nell’infelicità. È una prigionia terribile. Poche settimane fa sono andata al Bambin Gesù a incontrare delle ragazze anoressiche: c’erano bambine di otto anni! Adesso l’aspetto fisico è determinante per i ragazzi. Per le ragazze è un’angoscia pazzesca. Tu sei quello che appari, e questa è una catastrofe se non hai dietro il sostegno di una famiglia, se non sei nutrito da altre cose. Devi correre continuamente dietro [alle mode] per apparire sempre come gli altri ti dicono che devi apparire. C’è tanto da fare, tanto da dare ai ragazzi.

[Domanda dal pubblico] «Lavoravo alla Mondadori ragazzi e ho avuto l’onore di “redazionare” il suo Cuore di ciccia. Vorrei chiederle di raccontare un poco, perché è stato un antesignano rispetto agli episodi di bullismo che vediamo in giro».
Cuore di ciccia è il mio primo libro in cui c’è la parola “cuore”, è molto antecedente a Va’ dove ti porta il cuore. È la storia di un bambino che ha dei problemi di peso, come si capisce dal titolo, ed è un libro profetico, perché all’epoca ancora non si parlava di bullismo eccetera. Da più di vent’anni è lettissimo e amatissimo dai bambini di tutto il mondo: l’ho trovato anche in cinese. E ho incontrato molti bambini ormai trentenni che conoscono le canzoni di Scheletrica Delizia e dei vari personaggi… Perché il libro mette a fuoco il vuoto educativo, la solitudine dei bambini che si aggrappano al frigorifero come unico dispensatore di affetto e di stabilità. Chi ha la mia età si ricorda che noi, se andava bene, facevamo la merenda, che ci veniva data, e comunque era pane e burro o pane e marmellata; adesso i bambini hanno a disposizione cibo 24 ore su 24. Se uno ha un minimo di vuoterello affettivo è chiaro che il frifgorifero diventa il totem da cui nutrirsi.

Tutti i miei libri per bambini hanno una forte impronta profetica in qualche modo, e il fatto che parlino ai bambini di adesso come ai bambini di trent’anni fa è una cosa che mi emoziona tantissimo. Sono andata qualche giorno fa a Milano in una scuola media dove avevano fatto una drammatizzazione di Cuore di ciccia. Mi sono resa conto che i bambini che recitavano, quando io l’ho scritto, neanche erano nati. I miei libri passano di generazione in generazione perché parlano alla disperazione dei bambini. L’ultimo si intitola Salta, Bart! ed è la storia di un bambino che vive in una casa domotica in cui la mamma e il papà compaiono soltanto sullo schermo e tornano tipo ogni quindici giorni. La sua vita è tutta controllata da apparecchiature [che misurano] quanta pipì fa, quanto mangia: il controllo totale di adesso. Poi lui troverà una via di liberazione da questo mondo, la mamma tornerà a casa e farà le lasagne, arriverà il papà… La storia è meravigliosa, i bambini ne vanno pazzi. Ho fatto degli incontri in Toscana dove per una o due ore ho firmato libri ai bambini che dicevano: «Grazie, grazie, questo libro l’ha scritto proprio per me!». Questo vuol dire aver toccato il cuore dei bambini, non è una storia che li ha svagati: è una storia che ha toccato il loro punto di fragilità.

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