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TATUAGGI: “ritrovare equilibrio tra immagine soggettiva e oggettiva”

Tatuarsi è una moda ormai diffusa nelle società occidentali, si tatuano 13 italiani su 100, ma si tratta di “una nuova libertà antropologica?”. A porre l’interrogativo è padre Francesco Occhetta sul numero de “La Civiltà Cattolica” in uscita. Proponendo un’analisi sociale, culturale e antropologica del fenomeno, p. Occhetta fa notare il paradosso che proprio nell’epoca delle “scelte a tempo” il tatuaggio si impone come “la traccia di una ‘identità dilatata’ e il simbolo del ‘per sempre”. Cambia la relazione tra corpo e identità al punto che la pelle diventa diario di vita. Non più “urlo di protesta” ma decorazione “da esibire”. Pelle come “lavagna indelebile di un malessere (spirituale)? – si chiede il gesuita -. Si cambia il proprio corpo perché non si riesce a cambiare l’ambiente circostante?”. “Di certo – argomenta – il corpo tatuato è diventato un confine e un crocevia tra le dimensioni dell’interiorità e dell’esteriorità, tra l’estetica e la rappresentazione di sé”. Per i giovani, tatuarsi è “uno dei pochi riti di iniziazione rimasti, o un must per essere alla moda. I tatuaggi infatti sono una particolare forma di lotta per andare al di là del convenzionalmente permesso, per sentire qualcosa di forte. Come se la vita delle società occidentali non bastasse più.”

Per la cultura contemporanea, secondo p. Occhetta, “avere un corpo” da modificare prevale sulla dimensione di “essere un corpo” con cui relazionarsi. La sfida è invece quella di “ritrovare equilibrio tra l’immagine soggettiva del proprio corpo e quella oggettiva che si riflette nello sguardo del proprio mondo relazionale”. E se molti tatuatori sono considerati veri “artisti”, lo sono però “a scapito del soggetto”, che sceglie di diventare “un oggetto da dipingere” come una tavola di legno, una parete o una tela. Per p. Occhetta il tempo “aiuterà a comprendere se la costruzione della propria identità personale e sociale si limiti a significati parziali, centrati su un corpo prestato come oggetto. Se per secoli il tatuaggio è stato sia il segno di un corpo sconfitto sia un grido libero e rivoluzionario, questa cicatrice sulla pelle oggi non è più percepita come tale”. “Quando la moda e il tempo passeranno e i tatuaggi sulla pelle sbiadiranno, quali tracce rimarranno sui corpi? Aiutare le persone a riconoscersi nel proprio corpo per ritrovare se stessi – sostiene il gesuita – è un compito arduo”. E anche la cultura del tatuaggio “deve riconoscere che non promette né una seconda pelle, né nuove identità, né che non sfiorirà con il passare del tempo”.
Fonte: Agensir.it

 

 

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