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CINEMA: A VOCE ALTA

La forza della parola per ritrovare se stessi

Ogni anno all’Università di Saint-Denis, nella periferia nord di Parigi, si svolge “Eloquentia”, una gara di oratoria a cui gli studenti, provenienti da diversi contesti sociali, si preparano con l’aiuto di consulenti professionisti che insegnano loro la raffinata arte del parlare in pubblico. Durante le sei settimane precedenti la gara, i giovani imparano i sottili meccanismi della retorica, rivelando agli altri, ma soprattutto a se stessi, i propri talenti nascosti…

“Scrivere è fantastico, ma parlare è meglio”. Questa frase, pronunciata a inizio film da Johann, vent’anni scarsi, sorriso contagioso e battuta tagliente, rende perfettamente l’essenza di A voce alta, sottotitolato non a caso La forza della parola. Un documentario, quello di Stéphane de Freitas, molto vicino, negli esiti, all’indagine antropologica, generazionale e sociale effettuata da Laurent Cantet ne L’atelier (e, prima ancora, ne La classe), seppure, in quel caso, in forma di fiction incentrata sulla scrittura come via maestra al dialogo, e non, come qui, sul versante del “cinema della realtà” a dimensione prettamente verbale, contrassegnato da un profilo pedagogico ancora più accentuato.

Scandito da didascalie temporali che, in progressione cronologica, conducono lo spettatore dalle fasi preparatorie alla conclusione del contest, A voce alta pulsa di vitalità giovanile e impegno civile, facendosi prezioso collante dei legami interpersonali. Il regista conosce bene il tema trattato, essendo proprio il fondatore, nel 2012, del programma “Eloquentia” (progetto poi replicato in diverse Università francesi, a Grenoble, Limoges e Nanterre), ma è la sorprendente ricchezza della “materia umana”, prima ancora di una ben controllata sintassi filmica, ad accendere l’interesse: i giovani provenienti dalle banlieues, così come i loro docenti (professori, avvocati, attori, insegnanti di teatro), sembrano muoversi all’unisono, in osmotica reciprocità, imparando gli uni dagli altri. L’apprendimento di una corretta dizione, il controllo del respiro, dei gesti e delle pause, così come l’eloquio canonico, i testi rap, la slam poetry e i versi tradizionali, diventano un “vocabolario comune”, non solo i necessari “strumenti di lavoro”. E le storie incrociate di Elhadj, ex clochard scampato all’incendio che ha distrutto l’appartamento in cui abitava, Leïla, ventenne siriana impegnata nella lotta per i diritti delle donne, ed Eddy, franco-tunisino che percorre ogni giorno dieci chilometri a piedi per arrivare in stazione e, con il treno, giunge all’università di Saint-Denis, diventano storie emblematiche di riscatto, testimonianze limpide di una “esclusione” trasformatasi, esprimendo le proprie idee e sviluppando la fiducia in se stessi, in “integrazione”. Il segno tangibile di quella “forza della parola” che in A voce alta non cala mai di intensità.

Fonte: Saledellacomunità.it

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