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Dove finisce la libertà, dove inizia il consenso? Il regno del conformismo

Che cosa significa, oggi, essere conformisti? La domanda potrebbe apparire superflua in un’epoca che proclama la libertà individuale come valore supremo, che celebra la diversità, l’autenticità, la rottura di ogni schema. Eppure, proprio in questo tempo in cui l’io sembra diventato sovrano, il conformismo agisce in forme tanto più insidiose quanto più invisibili, insinuandosi nei gesti, nel linguaggio, nei giudizi morali, perfino nelle emozioni collettive.

Don Abbondio, nei Promessi Sposi, è forse l’emblema più limpido dell’uomo conformista: non un malvagio, né un tiranno, ma un uomo che, pur sapendo dove stia la giustizia, piega la schiena di fronte al potere. La sua rinuncia non è dettata da cattiveria, ma dal desiderio di evitare complicazioni, di non mettersi nei guai. È il conformismo che nasce non dall’odio, ma dalla paura, e che finisce per fare il gioco dei più forti.

Mai come oggi si invoca il diritto a essere se stessi, e mai come oggi la vita collettiva appare segnata da un imperativo silenzioso a coincidere, a dire le stesse parole, a provare le stesse indignazioni, a sorridere nello stesso modo. È un paradosso che svela la natura profonda del nostro presente: la libertà viene proclamata incessantemente, mentre si restringe lo spazio reale della divergenza.

Non servono più censure esplicite, né minacce di violenza. Basta il gelo improvviso che cala in un ufficio quando qualcuno esprime un’idea non allineata. O il tintinnio più secco delle posate in una cena tra amici quando si pronuncia una parola scomoda su temi delicati come la guerra, i diritti, la libertà del corpo. O, ancora, il silenzio digitale che avvolge un post troppo distante dalla sensibilità dominante, mentre il dito scorre rapido verso immagini più lievi, più facili, più uniformi.

In ciascuno di questi episodi si manifesta il tratto essenziale dell’uomo conformista contemporaneo: non è un uomo privo di idee, né un uomo privo di parole. Anzi, possiede un lessico ampio, una capacità disinvolta di inserirsi nel discorso pubblico. Ma ciò che dice, ciò che difende, raramente è frutto di una lenta sedimentazione interiore. Più spesso è il risultato di una selezione accurata di formule, di parole già approvate, di opinioni che non rischiano di creare imbarazzo o isolamento.

Come osserva Byung-Chul Han, viviamo in ciò che egli chiama « Die Hölle des Gleichen », l’inferno dell’uguale, dove ogni differenza è percepita come disturbo e dove la pressione a coincidere con l’opinione dominante si insinua perfino negli spazi più intimi del pensiero. E tuttavia, nulla è più ingannevole di questa apparente armonia. Perché quando qualcuno esprime coraggiosamente un dissenso, i conformisti si coalizzano in una conventio ad excludendum. Si crea una saldatura istantanea, invisibile ma potentissima, il cui scopo è isolare la voce fuori registro, farla apparire eccessiva, ridicola, pericolosa. È così che si giunge all’introiezione delle pratiche difformi, a quella prudenza emotiva che induce a tagliare via ogni parola appuntita, ogni sfumatura, ogni tentativo di verità non conforme. Il paradosso più inquietante è che questo conformismo, pur vestendosi di modernità, alimenta le stesse dinamiche di potere che, su scala più ampia, danno vita a forme di adulazione, di culto del leader, di cortigianeria. È lo stesso meccanismo che, nella scena geopolitica, trasforma le istituzioni in feudi personali, riduce la democrazia a un teatro di parole solenni, mentre dietro il sipario si consuma il calcolo freddo delle esclusioni, delle alleanze, dei tradimenti.

Timothy Snyder, nel suo On Tyranny, avverte che «Gran parte del potere dell’autoritarismo è concesso spontaneamente. Gli individui si offrono senza che venga loro richiesto». Non è dunque necessario un regime autoritario che imponga il silenzio. Spesso è sufficiente che il silenzio venga offerto spontaneamente, come pegno per continuare a far parte del gruppo, come assicurazione contro il rischio di rimanere soli.

E chi riesce a vivere nella maggioranza, nella zona calda del consenso, conduce spesso un’esistenza che appare beata e senza strappi. È una vita fatta di rapporti sociali in apparenza solidi, di scambi di cortesie, di alleanze costruite su convenienze minute. Ma sotto quella superficie si agita il vuoto di relazioni che non hanno alcun valore intrinseco, dove la parola data non pesa, dove l’amicizia non significa sostegno nei momenti difficili, ma solo la rassicurazione di somigliarsi, di non restare esclusi. Un vero luogo di lavoro dovrebbe essere lo spazio in cui la differenza è vista come risorsa di senso. Una comunità dove la pluralità delle voci è ossigeno per il pensiero comune, e il dissenso diventa occasione per interrogare certezze, affinare il giudizio, far emergere nuove prospettive. Chi assume il ruolo di coordinare non dovrebbe pensarsi come il fulcro intorno a cui tutto deve ruotare, ma come colui o colei che favorisce l’emersione delle voci altrui, applicando forme di leadership capaci di leggere il presente, invece di replicare modelli gerarchici ormai superati. Eppure, troppo spesso, vecchie logiche di controllo si ripropongono nella convinzione, ingenua, che restino circoscritte e invisibili fuori dalle piccole comunità in cui si consumano. Oggi, invece, ogni comportamento risulta più esposto e trasparente: e quando giochi di potere e meschinità vengono alla luce, finiscono per rendere grotteschi coloro che li perpetuano, rivelando la sproporzione fra l’ambizione di apparire autorevoli e la povertà reale di visione.

Ma anche laddove immaginiamo una comunità capace di valorizzare il dissenso, resta una domanda aperta: chi avrà davvero la forza di opporsi, di dire no, quando tutto spinge a tacere?

Opporsi significa esporsi, rinunciare alla protezione del gruppo, accettare il rischio di restare soli. Significa sottrarsi a quella complicità silenziosa che spesso mascheriamo da prudenza o diplomazia. Il no, in questi tempi, non è un gesto di rabbia, né un atto di sterile provocazione. È una dichiarazione di fedeltà a se stessi e agli altri, perché soltanto il no rende possibile la verità, la responsabilità, la dignità. E, soprattutto, è una forma di testimonianza: un segno visibile che la verità, anche quando appare fragile o impopolare, merita di essere pronunciata e sostenuta, fosse anche da una sola voce.

Perché, alla fine, quando i riflettori si spegneranno, e il brusio collettivo si dissolverà, e resteremo soli con la nostra voce interiore, non ci chiederemo quante porte abbiamo aperto grazie alla nostra prudenza. Ci chiederemo quante volte abbiamo avuto il coraggio di dire no. E sarà solo quel no, pronunciato nel silenzio complice di tutti, l’unico suono capace di salvarci dall’abisso di un mondo dove anche la dignità rischia di diventare merce di scambio.

Fonte: Giovanni Scaraffile | FrancescoMacrìblog.it

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