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Perchè preferisco la satira all’ironia, il diavolo ha paura dell’allegria

«Guarda mamma, un pagliaccio mi ha regalato una spada!». Così ha detto mio figlio, brandendo felice l’arma-palloncino che un clown gli aveva modellato al supermercato. Le rotelle del mio cervello ci hanno letto un chiaro messaggio simbolico: àrmati di ironia!

Abbiamo visto che si viene uccisi a causa di vignette satiriche (pesanti e brutte, a onor del vero); ma dovremmo ricordarci che c’è chi è morto martire senza perdere il senso dell’ironia. Una preghiera di san Tommaso Moro comincia così: «Signore, dammi una buona digestione e anche qualcosa da digerire. Donami la salute del corpo col buonumore necessario a mantenerla». L’ironia non è la satira; l’ironia è una lode infinita di ciò che c’è, la satira è una sferzata necessaria contro il fastidio infinito dei potenti. Strumenti diversi, che danno frutti diversi. Per curare un prato bisogna seminare, ma anche usare il diserbante. L’ironia semina, la satira diserba. Ecco perché preferisco l’ironia; è proprio come il seme nel campo: sprofonda per poi germogliare. È umile e dà frutto.

Quante volte applaudiamo di cuore il comico che fa battute sui battibecchi tra moglie e marito, raccontando storielle su lei che si lamenta «Ma tu non mi capisci!» e lui che annuisce in silenzio, e intanto pensa a quali attaccanti schiererà il ct della nazionale. L’ironia è innanzitutto riflessiva: capovolge e mette in discussione se stessi. Sono convinta che siano i carabinieri quelli che si gustano davvero le barzellette sui carabinieri. L’umorismo, diceva Pirandello, è il sentimento del contrario. Oggi, se uno vuole sapere il contrario dei fatti reali, legge i quotidiani blasonati. Ma non c’è niente da ridere su questo, ahimè. Il sentimento del contrario è un’altra cosa, e Pirandello lo racconta così: «È la contraddizione fondamentale, il disaccordo che il sentimento e la meditazione scoprono fra la vita reale e l’ideale umano».

C’è una discordanza profonda in ogni nostro gesto, tra l’ambizione e la realizzazione, tra la buona volontà e il cattivo umore. L’uomo orgoglioso traduce tutto ciò in astio e ciglia aggrottate; e il più delle volte resta a braccia conserte. L’uomo umile lo traduce in una risata; e il più delle volte si rimbocca le maniche. L’ironia scalza l’egocentrismo e dà una spinta buona. Tommaso Moro proseguiva la sua preghiera dicendo: «Donami un’anima che non conosca la noia, i brontolii, i sospiri e i lamenti; e non permettere che io mi affligga eccessivamente per quella cosa troppo invadente che si chiama “io”. Signore, dammi il senso del ridicolo e concedimi la grazia di comprendere gli scherzi, affinché conosca nella vita un po’ di gioia e possa farne partecipi anche gli altri».

La preghiera laica di oggi è diventata «io sono Charlie», tante matite alzate, che sembrano altrettante mani alzate in gesto di resa. Se proprio devo mettermi in processione, preferisco seguire i santi indaffarati come don Bosco che diceva: «Noi facciamo consistere la santità nello stare molto allegri» perché «ricordatevi che il diavolo ha paura della gente allegra». Il diavolo gode nello scontrarsi col guerriero che sta altero sul piedistallo, ma teme il pagliaccio che lo sfida con una spada-palloncino. La menzogna, infatti, si sgretola in un battibaleno, se messa a testa in giù dalle acrobazie umili di un clown.
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