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Bartov: “Israele mai così isolata, la società vive con il negazionismo il genocidio a Gaza”
— 6 Ottobre 2025— pubblicato da Redazione. —
Intervista allo storico israeliano: “Sono stanco delle proteste per ostaggi e soldati senza pensare ai palestinesi: è frutto di anni di politiche di de-umanizzazione”
Omer Bartov è uno storico israeliano. Nella sua carriera ha studiato i genocidi in generale, in particolare la Shoah. Nel suo campo è molto conosciuto: ma nulla in confronto alla notorietà internazionale che lo ha raggiunto a luglio, quando sul New York Times ha pubblicato un editoriale con un titolo che non lasciava spazio ai dubbi. “Sono un esperto di genocidio: quando ne vedo uno lo so riconoscere”, era il titolo del pezzo: che argomentava, con la forza delle ragioni dell’accademia, perché quello che sta accadendo nella Striscia di Gaza è un genocidio. Da allora, Bartov, 71 anni, è stato travolto da una marea di critiche: e da una marea di supporto. Non è mai rimasto in silenzio.
Professor Bartov, Gaza, le altre guerre, la Flotilla: sono passati quasi due anni dal 7 ottobre 2023 Israele non è mai stato così isolato. Che effetto fa questo a chi, come lei, da tempo mette in guardia contro le conseguenze di quello che sta succedendo?
«Non è una bella sensazione. Dopo il 7 ottobre, come molti, sapevo bene che la risposta sarebbe stata durissima: ma pensavamo si trattasse di un mese, di qualche settimana in più. Credevamo che poi la comunità internazionale sarebbe intervenuta: così non è stato. Quindi ha ragione lei quando parla di isolamento di Israele: ma c’è anche il fallimento della comunità internazionale che ha garantito a Israele una sostanziale impunità. Questa cosiddetta guerra si sarebbe potuta fermare prima che diventasse un genocidio».
Il suo punto di vista da queste parti non è molto popolare….
«Infatti non vado in Israele dal dicembre 2024 e non ho intenzione di tornarci presto. Non ce la faccio a vedere la gente che protesta solo per gli ostaggi o per i soldati, senza neanche pensare a quello che accade a Gaza o in Cisgiordania. Ho molti amici che vivono in uno stato di totale negazione, su quello che il Paese sta facendo e sulle reali ragioni della rabbia di tanta parte del mondo. Sono più preoccupati di rimanere fuori dall’Eurovision o dalle competizioni di calcio internazionali che del genocidio che il governo sta compiendo in nome loro. Molti di loro non vogliono affrontare il vero problema: se qualcuno dicesse loro che i palestinesi sono spariti tutti in 48 ore, sarebbero felici. Non si porrebbero il problema del come, di cosa potrebbe essergli successo. La negazione e il non voler vedere sono due fenomeni tipici delle società coinvolte in genocidi».
Perché è importante usarla questa parola: “Genocidio”.
«Ci sono due tipi di conseguenze: la prima, questa parola porta con sé una responsabilità legale internazionale. Se dici che è in corso un genocidio, vuol dire che tutte le nazioni che hanno firmato la convenzione internazionale contro il genocidio devono intervenire. La seconda conseguenza è che il genocidio è commesso da uno Stato, quindi da tutta la società: dove sono i medici israeliani? Gli avvocati? I professori universitari? Chi non parla è complice, e questo è molto diverso da un crimine di guerra, che viene compiuto da una persona o da un gruppo. Il marchio del genocidio resterà a lungo sulla società israeliana. E la società israeliana non potrà farci i conti se non affronterà ciò che ha causato il genocidio: decenni di de-umanizzazione e di violenze contro i palestinesi».
E come si ferma?
«Esigendo un prezzo. Israele deve pagare il conto. Lo chiedono i giovani, tantissimi, in Europa come negli Stati Uniti. Il fatto che anche la vostra prima ministra, che è una ferma supporter di Israele, abbia detto che era il momento di fermarsi, lo dimostra. Ma la realtà è che la società israeliana sta cambiando: Netanyahu, Smotrich e Ben Gvir stanno portando avanti il loro golpe giudiziario sotto la coperta di Gaza. Comunque vada a finire questa guerra, questa nazione sarà sempre più religiosa e estremista».
Lei non ha molte speranze per il futuro…
«Io credo che solo una terapia shock possa cambiare il quadro: massicce sanzioni economiche. Israele deve toccare i limiti del suo potere. Ma la terapia shock deve riguardare anche i palestinesi, che sono la parte debole di questa cosa che c’è chi si ostina a chiamare conflitto: ma è un’occupazione. Solo se ammettono i loro errori, i loro fallimenti anche loro potranno ripartire. Hamas è uno di questi: c’è poca differenza fra quello che dice Hamas e quello che dicono Smotrich e Ben Gvir».
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