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Così noi adulti abbiamo delegato l’educazione a uno schermo

La digitalizzazione precoce è stato un autogol che molti esperti in campo pedagogico avevano anticipato per tempo. Ecco quali sono i rischi da tenere in considerazione

 

L’autogol della digitalizzazione precoce dell’apprendimento è che essa non si basa solo su attività gestite dal docente nell’ambiente dell’aula scolastica, ma invita bambini e bambine a proseguire quelle attività anche nell’ambiente domestico. Con uno smartphone o un tablet connessi in mano mentre svolgono le attività di studio, i minori vengono catturati dallo strumento stesso e reclutati a diventare utenti e fruitori di infinite altre esperienze che con gli obiettivi scolastici non hanno nulla a che vedere. E fra tutti i meccanismi di «uncinamento», quello del rinforzo intermittente è uno dei più potenti.

La gran parte delle attività online viene architettata per «uncinare» i fruitori attraverso la tecnica del rinforzo intermittente. Il centro del piacere nel nostro cervello viene attivato quando, giocando, sperimentiamo la vincita, condizione che stimola il rilascio di dopamina, neuromediatore che ci spinge a non interrompere l’esperienza che lo ha prodotto. Se però vincessimo sempre, verrebbe meno lo stimolo ad andare avanti a giocare, perché il nostro cervello vivrebbe la noia derivante dall’abitudine. È come se un adulto giocasse a ping pong contro un bambino della scuola primaria: è chiaro che le maggiori ed evidenti competenze lo porterebbero a risultare sempre vincitore. Quindi l’adulto troverebbe di per sé divertente tale tipo di esperienza e tenderebbe ad abbandonarla. Se il bambino contro cui gioca, però, è il proprio figlio, l’adulto può darsi altre motivazioni per perseverare: voglio allenarlo e aiutarlo a diventare un giocatore esperto; voglio spendere del tempo di qualità con lui; voglio che si diverta. Nel frattempo, la scelta educativa dell’adulto di lasciar vincere di tanto in tanto il minore che ha capacità e abilità più ridotte rappresenta per quest’ultimo una spinta dopaminergica a non abbandonare il gioco e a continuare ad allenarsi.

Il meccanismo di «uncinamento», quello da cui poi deriva il fenomeno dell’addiction, si attiva quando il giocatore si trova coinvolto in competizioni in cui a volte vince e a volte perde. Ciò che lo stimola a fare una nuova partita è pregustare il piacere di risultare vincitore. Per questo, ogni sconfitta non rappresenta altro che una sfida per accede re a nuove esperienze di gioco. Ciò di cui è davvero alla ricerca il nostro cervello è il rilascio di dopamina, che ci predispone ad andare alla ricerca della nuova vittoria. Dentro un’esperienza che non si ferma mai, che non si esaurisce mai, che fornisce sempre nuove opportunità di ingaggio (proponendo avversari di volta in volta differenti oppure livelli via via più complessi di gioco, come avviene nei videogiochi), ci sono persone che più di altre risultano esposte al rischio di dipendenza, sviluppando una vera e propria ossessione nei confronti di ciò che li tiene ingaggiati e attivati oltre misura. Va detto, a questo punto, che infanzia e preadolescenza sono età particolarmente vulnerabili all’attrazione proposta da divertimenti subito disponibili, ad alto livello di eccitazione e soddisfazione immediata. La loro capacità di resistere a tutto ciò che è «gratificazione istantanea» è davvero molto bassa e richiede frequenti interventi regolatori dall’esterno, che solitamente avvengono a opera di genitori e educatori.

Almeno fino ai 15-16 anni, la mente del minore è spinta a seguire le richieste che provengono dalla sua parte emotiva e fatica a usare le risorse cognitive che ma turano in modo consistente e significativo solo più avanti nell’età. In particolare, in preadolescenza c’è un forte squilibrio tra la potenza del cervello emotivo e la relativa immaturità del cervello cognitivo. Il ragazzo, perciò, tende a seguire il flusso costante della ricerca di eccitazione, gratificazione istantanea e piacere. Ecco perché a questa età è più esposto alla sovrasperimentazione di passatempi che non si fermano e non si spengono mai, come quelli proposti dai videogiochi. È come immergerlo nell’atmosfera di un parco giochi e poi, nel pieno del divertimento, chiedergli di abbandonare quel Paese dei Balocchi per dedicarsi ad attività più congrue ai suoi bisogni di crescita. I giochi tradizionali, quelli da cortile o in scatola, non innescano questi meccanismi. I giochi all’aperto e in generale tutti quelli che presuppongono il coinvolgimento del corpo si limitano da soli, perché portano alla percezione della stanchezza fisica e all’abbandono conseguente dell’esperienza. L’esatto contrario di ciò che avviene con i videogiochi, che non inducono stanchezza e implicitamente chiedono al giocatore di non smettere mai. L’effetto legato al rinforzo intermittente è uno dei principali responsabili della trasformazione dell’attività ludica che connota oggi l’esperienza di gioco dei nostri figli, in particolare dei maschi, che rappresentano una porzione maggiore all’interno della popolazione generale che ne fruisce.

Probabilmente è a partire dal 2000 che si assiste a una radicale trasformazione delle modalità con cui i bambini e le bambine trascorrono il loro tempo libero. In realtà, ciò che viene a scomparire è il concetto stesso di tempo libero, dal momento che le giornate dei più piccoli diventano uno slalom tra scuola (spesso con orario prolungato) e attività extrascolastiche pomeridiane molto impegnative È questa una trasformazione funzionale anche ai cambiamenti degli stili di vita e dell’organizzazione famigliare: a iniziare dagli anni Settanta, infatti, cresce in modo esponenziale la percentuale di famiglie in cui entrambi i genitori lavorano e di conseguenza il piccolo viene sempre più accolto nelle diverse agenzie educative presenti nella sua comunità. Quello che accade è che i bambini sperimentano molte occasioni per fare cose con altri coetanei, sempre però con la supervisione dell’adulto che li guida e accompagna in tali attività. Ciò che viene a mancare nelle vite dei bambini è l’esperienza del gioco libero e destrutturato, che prima si esprimeva in due modalità: fuori all’aperto con i coetanei e nella solitudine della propria stanza.

Al gioco all’aperto abbiamo già accennato e torneremo a parlarne, quello in solitudine invece era solitamente preceduto dall’invito di mamma e papà che dicevano: «E adesso vai in camera tua e rimani lì per un po’». Nella propria camera il bambino trova va le sue cose, giocattoli, libri, vestiti, e lì poteva restare, anche per un tempo molto prolungato, facendo un po’ di tutto. Se poi in casa c’erano fratelli e sorelle, grande interesse veniva anche suscitato dai giochi in scatola. In generale, quello che accadeva era che i bambini, attraverso l’esperienza del gioco, imparavano non solo a stare da soli o a socializzare con gli altri, ma anche a far ricorso alla propria fantasia, a intrattenersi in attività creative e artistiche, a coltivare passioni. Tutto questo, alle soglie del 2000, era già notevolmente scomparso, anche perché la rivoluzione delle abitudini televisive aveva portato molte novità nella vita dei più piccoli. Dalla Tv dei bambini e dei ragazzi degli anni Settanta, basata su trasmissioni di qualità rivolte direttamente ai più piccoli e confinate in orari ben precisi, si passa infatti negli anni Ottanta alla moltiplicazione di canali, programmi e proposte di intrattenimento schermo-mediate che entrano di prepotenza nella vita familiare, stravolgendone usi, abitudini e ritualità. Per la prima volta, nella camera dei bambini compaiono gli apparecchi televisivi. In quegli anni, gli specialisti dell’infanzia cominciano ad avvertire i genitori che l’attrattività rappresentata da uno schermo acceso è tale da distogliere il bambino da altre attività non schermo-mediate, che per lui però possono essere molto più formative o educative.

Ciò che emerge nell’analisi dell’interazione tra schermi e bambini è la tendenza dei primi a passivizzare i secondi, tenendoli agganciati a ciò che pro pongono e limitandone di conseguenza l’esplorazione e la curiosità verso tutto ciò che si trova al di fuori. Il dibattito dell’epoca nei confronti di bambini e Tv riguarda sia aspetti quantitativi (il tempo speso davanti a uno schermo è tempo non utilizzato per altro) sia aspetti qualitativi di tale relazione. Ci si chiede se la crescente presenza di contenuti violenti nei cartoni animati e nei programmi per minori possa essere predittiva di una maggior predisposizione ad agire in modo violento nella vita reale, e al tempo stesso ci si preoccupa di come i programmi televisivi cambino le attitudini e le norme sociali nei confronti di molte dimensioni correlate all’educazione e alla crescita dei minori. La modalità con cui la sessualità viene presentata e rappresentata nei programmi televisivi, la trasmissione (per la prima volta) di materiali erotici e pornografici su alcuni canali fuori dalla fascia oraria protetta, la sovrarappresentazione di donne spesso ridotte a elementi decorativi di programmi condotti da uomini con una diversa distribuzione di ruoli e funzioni (anche sul piano simbolico), la magrezza esaltata a valore estetico anche quando è palesemente problematica sul piano della salute e del benessere individuale: questi sono solo alcuni degli argomenti che tornano ripetutamente nel dibattito relativo all’interazione tra schermi e minori. A voler guardare, gli aspetti critici rilevati da questa esplorazione primordiale dell’impatto che gli schermi producono sull’educazione e sullo sviluppo dei minori non sono molto dissimili dai tanti rischi che oggi, nell’epoca della connessione globale, vengono associati all’influenza dei social media e della vita online sul la loro crescita.

Fonte: Alberto Pellai | Avvenire.it

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