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Paolo Ruffini: «Ecco cosa ho imparato sul palco con i Down»

L’attore racconta la sua esperienza sopra e fuori dal palcoscenico: «Per loro la fantasia è un modo di abitare il mondo. La loro lezione sulla speranza e sulla fede non finisce mai»

Dal 17 settembre al 30 ottobre torna a Venezia e Mestre il Festival delle Idee, giunto quest’anno alla sua settima edizione, con un doppio tema: “Immagina” e “La via dei Talenti”.

Il 15 ottobre sarò al Festival delle Idee. Quest’anno il tema è l’immaginazione: la capacità di vedere oltre, di ribaltare prospettive, di trovare soluzioni dove sembravano esserci solo problemi. È un invito che sento vicino, perché da poco più di un anno viaggio in tournée con due spettacoli, Il Babysitter e Din Don Down, e da quel cammino ho imparato una cosa semplice: i miei più grandi maestri sono i bambini e le persone con sindrome di Down. Per loro, l’immaginazione non è un esercizio di evasione, ma un modo vero e proprio di abitare il mondo. Con quattro sedie e una coperta sanno costruire un castello, in un’ombra vedono un drago, sul pavimento inventano un mare in tempesta. E per loro è tutto reale. L’immaginazione non è un lusso, è una necessità: permette di trasformare il mondo, di dargli nuovi significati.

Spesso mi dicono che lavoro con i “bambini Down”. In realtà, gli attori con cui lavoro non sono bambini, ma hanno molto in comune con i bambini. Entrambi, bambini e disabili, hanno un tratto che li rende unici: la sensibilità. Io, peraltro, non li considero “piccoli” o “fragili”: i bambini sono persone basse, già complete anche se non ancora cresciute; le persone con sindrome di Down sono persone empatiche, capaci di sentire più di tanti adulti. E preferisco la sensibilità all’intelligenza: le persone intelligenti fanno le guerre, le persone sensibili no. La sensibilità, che spesso viene considerata una debolezza, è in realtà un atto di coraggio. È più facile difendersi, fare finta di nulla, alzare muri. È difficile esporsi, lasciarsi toccare, provare empatia. Eppure, sono proprio i bambini e le persone con sindrome di Down a insegnarci che la vulnerabilità non è un difetto, ma una forza. Perché permette di entrare in relazione vera con gli altri. I bambini e le persone con sindrome di Down hanno il coraggio di essere sé stessi, sempre. Sono qualcos’altro solo per gioco: “Giochiamo a guardie e ladri? Tu fai la guardia e io il ladro”. E lo fanno con una serietà assoluta, perché per loro il gioco non è finzione, è verità. In questa autenticità sta la loro pienezza, la loro ricchezza più grande.

E in questa pienezza c’è spazio anche per la fede, per il mistero, per il divino. Una volta ho chiesto a un bambino di quattro anni: «Chi è Dio?». Mi ha risposto: «Non lo so, ma l’ho salutato quattro anni fa». Forse è così: nasciamo lasciando Dio per cominciare la vita, e alla fine torniamo a Lui. Quando un bambino dice “ho salutato Dio quattro anni fa”, ci ricorda che la vita non è solo quello che vediamo. C’è un qualcosa che sfugge alle nostre misure. Noi adulti cerchiamo prove, certificati, garanzie. I bambini invece si fidano. Forse è questo il senso della fede: non sapere tutto, ma credere comunque. Una bambina mi ha chiesto: «Paolo, scusami, perché se i vecchi si chiamano vecchi, i bambini non si chiamano nuovi?». Ha ragione: ogni bambino è un “nuovo inizio”, e in effetti con lui nasce anche un genitore. Ma noi adulti ci sentiamo assolti dal dovere di imparare. Mandiamo i bambini a scuola, come se la scuola non ci riguardasse più. E invece dovremmo andarci noi, a quarant’anni, non per stare in cattedra, ma per sederci nei banchi. In cattedra ci mettiamo un bambino di otto anni che ci spiega come vivere. E soprattutto ci aiuta a disimparare le sciocchezze che abbiamo appreso nel corso della vita quotidiana da adulti.

Viviamo in un tempo che misura il quoziente intellettivo, ma non il quoziente spirituale. Eppure, sarebbe utile: ci direbbe quanto amore sappiamo dare, quanta fiducia sappiamo offrire. I bambini hanno fede. In Babbo Natale, in Dio, negli unicorni, negli animali parlanti. Credono alle cose belle. E credono nel prossimo. Se prendi un bambino di tre anni per mano e lo porti via, lui viene, perché si fida. Siamo noi a insegnargli a non fidarsi. Ma il mondo ideale non è il nostro. È il suo. È il loro.

Imparare la speranza dai bambini è una lezione che non finisce mai. Un bambino di Civitavecchia mi ha detto: «Sono stato molto male quando il nonno è andato in cielo…». Io gli ho risposto: «Vuoi dire che è morto?». E lui: «No, è andato in cielo». “Cielo” vuol dire celare: noi oltre il cielo non vediamo niente. I bambini sì. Non guardano il cielo, guardano quello che è celato. Guardano quello che sta “oltre”. Dovremmo imparare dai bambini anche il rispetto degli altri. Se un bambino di cinque anni si trova accanto a un compagno con una disabilità, o con la pelle di un altro colore, o che parla una lingua diversa, sapete cosa fa? Ci gioca. Senza problemi.

E se hanno i loro problemi, sanno come fare. Ho incontrato una bambina che giocava solo con la testa di una bambola. Le ho detto: «È un problema grave…». E lei: «Sì». «E come fai a essere felice?». «Sempliceee! Sono felice senza risolverlo. Quando sarai piccolo capirai».

Quella bambina mi ha insegnato che anche davanti ai problemi si può trovare una strada per vivere. È la stessa lezione che ho imparato guardando negli occhi le persone con sindrome di Down: non sono uguali a me, né diverse da me. Sono uniche, come me. E da questa unicità può nascere una società più giusta, capace di riconoscere il valore di ciascuno. Forse dovremmo anche ripensare una frase che ci accompagna da sempre: non “Ama il prossimo tuo come te stesso”, ma “Ama il prossimo tuo perché è te stesso”. Un “te” esteso, che si allarga agli altri. Ed è proprio in questa visione che i bambini sanno muoversi: vivono nel presente, nel divenire, nel “qui e ora”. E lì trovano la gioia che noi adulti perdiamo. Perché viviamo come se il presente fosse una corsia di servizio per il futuro. Corriamo, programmiamo, accumuliamo. Ma i bambini e le persone con sindrome di Down ci riportano al “qui e ora”. Per loro l’adesso è tutto: ridere tanto, piangere tanto, abbracciare senza motivo.

Penso a che mondo avremmo se l’immaginazione guidasse davvero le nostre scelte collettive. Una società dove non conta quanto produci, ma quanto sai accogliere. Dove non ci sono “diversi”, ma solo persone uniche. Dove la sensibilità non è una colpa, ma un valore. È questo il mondo che i bambini e le persone con sindrome di Down già abitano, e che noi facciamo fatica a immaginare. In conclusione? Felicità senza soluzioni. Amore che dura più della vita. Fede che non chiede prove. Fiducia come abitudine. Ecco cosa ci insegnano i bambini e le persone con sindrome di Down. Ecco cosa dovremmo reimparare a immaginare. Perché la vita è davvero un dono. E non a caso si chiama “presente”. Ma troppo spesso ce ne dimentichiamo. Ora, invece, è proprio tempo di immaginarlo il nostro presente!

Fonte: Paolo Ruffini  | Avvenire.it

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