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Il Papa è il sogno, Trump è l’incubo

Lo scrittore di Chicago, Scott Turow, dice del Papa di Chicago, Leone XIV, che è «la vera incarnazione del sogno americano». Una definizione sorprendente: Robert Francis Prevost, il successore di Pietro eletto lo scorso 8 maggio, è forse l’americano che meno rappresenta oggi gli Stati Uniti. È l’opposto di Donald Trump. Ai fedeli raccolti in piazza San Pietro si presentò in perfetto italiano e in spagnolo, senza pronunciare una parola in inglese, senza fare riferimento alle sue origini o alla sua città natale. Quest’uomo mite e timido, che ha vissuto dalla parte degli ultimi durante i suoi anni in Perù, non condivide né incarna il nazionalismo di Trump, o l’ideologia America first. «Dobbiamo cercare insieme come essere una Chiesa missionaria, una Chiesa che costruisce ponti, dialogo, sempre aperta a ricevere, come questa piazza con le braccia aperte, tutti coloro che hanno bisogno della nostra carità, della presenza, del dialogo, dell’amore», disse il nuovo Papa di fronte alla folla che lo acclamava a San Pietro. Non è un caso che la parola «ponte» sia stata ripetuta tre volte in quel discorso.

Prevost è nato a Chicago nel 1955 in una famiglia con origini italiane, francesi e spagnole. È il primo Papa che proviene dagli Stati Uniti; il secondo, dopo il predecessore Francesco, a essere nato nelle Americhe. Ha passato la maggior parte della sua vita al di fuori del Paese di origine. È stato ordinato presbitero nel 1982, a 27 anni. In occasione del suo settantesimo compleanno, che si celebra oggi, 14 settembre, abbiamo chiesto a un illustre cittadino di Chicago, il romanziere Scott Turow (1949), quasi coetaneo del Papa agostiniano, di scavare nelle radici urbane di Leone. Turow è da poco uscito in Italia con un sequel del suo capolavoro Presunto innocente (1987), intitolato Presunto colpevole (nel nostro Paese tutti i suoi libri sono pubblicati da Mondadori).

Dunque, signor Turow, perché Papa Leone XIV è il vero volto del sogno americano?

«Il contrasto tra le due figure che rappresentano l’America oggi, ovvero Prevost e Trump, è impietoso. Papa Leone proviene da un ambiente molto umile, è nato in un quartiere operaio nel South Side di Chicago (…). Ora, per rispondere alla sua domanda: lui rappresenta il sogno americano perché incarna ciò che una democrazia generosa e pienamente funzionante dovrebbe essere. L’America è diventata America quando ha saputo offrire alle persone l’opportunità di diventare chiunque desiderino essere. Questo è il sogno americano: un giovane di umili origini che ha proseguito gli studi nonostante i pochi mezzi a disposizione, un giovane che ha scelto il sacerdozio e che adesso, dopo anni di sacrifici, è emerso nel mondo. Agli abitanti di Chicago piace pensare che siamo una città senza pretese, a differenza di New York e di Los Angeles. A noi piace pensare che Chicago sia un luogo che trasmette rispetto per i lavoratori e per il lavoro, il senso del dovere, l’amore per la famiglia e per la patria, la cura delle istituzioni, che si tratti della Chiesa o della legge. E, finora, il Papa sembra incarnare tutto questo. Leone XIV ha trascorso oltre due decenni come sacerdote in Perù, se n’è andato dalla nostra città per stare in un Paese povero, per stare dalla parte dei poveri. Prevost è un cittadino del mondo».

Papa Leone è stato elogiato da Donald Trump, che subito dopo la sua elezione, in contrasto con il profilo umile assunto dal cittadino del mondo Prevost, ha scritto su Truth che si trattava «di un grande onore per il nostro Paese avere per la prima volta un Papa americano», privilegiando così l’idea di «America first». Prevost è naturalizzato peruviano e non ha mai troppo sbandierato le sue origini statunitensi. È lui dunque l’altra America?

«Papa Leone e Donald Trump vivono agli antipodi. Stiamo parlando di un uomo che ha passato la vita a prendersi cura dei poveri, nella loro condizione materiale e in quella spirituale. Il confronto con una presidenza che mira a rendere i poveri più poveri e i ricchi più ricchi è impietoso. È quasi impossibile mettere a confronto queste due Americhe. Finora Leone è sempre stato molto misurato, che è, per quanto mi riguarda, il modo corretto di usare il potere. Se il Papa volesse promuovere un conflitto, potrebbe farlo. Ma tutti i papi che ho visto e ascoltato nella mia vita sono stati principi di pace. Mi aspetto che questo Papa si comporti nello stesso modo. Non ha assolutamente bisogno di attaccare briga con Donald Trump. Sono altrettanto sicuro che ci siano punti su cui Leone è d’accordo con Trump: qui negli Stati Uniti abbiamo un presidente pro vita, che prova ad applicare sempre maggiori restrizioni alla legislazione sull’aborto. Anzi, probabilmente Leone vorrebbe che Trump fosse ancora più netto sulle sue posizioni in materia di pro vita. Ecco perché dico che il Papa ha adottato un approccio misurato. Non si è addentrato nella politica. Ma sono sicuro che prima o poi le loro visioni del mondo si scontreranno. Ho un caro amico prete, si chiama John, viene anche lui dal South Side di Chicago. Ha frequentato lo stesso seminario del Pontefice. Per lui ha solo parole di stima e affetto».

Lei aveva previsto, proprio su queste pagine, il ritorno di Trump, in tempi non sospetti. Il prossimo anno si terranno le elezioni di «midterm», che si svolgono due anni dopo le presidenziali. Vuole fare un’altra previsione?

«Di certo non siamo in un periodo nel quale l’America è sulla strada per diventare una società più giusta, come quella che vorrebbe il Pontefice. Come già successe nel primo mandato, il signor Trump usa il potere governativo per punire i propri nemici, arrivando a dispiegare la forza militare nelle strade. A Los Angeles abbiamo visto gli agenti dell’immigrazione prelevare immigrati irregolari durante una serie di raid. Il Congressional Budget Office, un’agenzia indipendente, ha pubblicato stime che dimostrano come con il tempo questa amministrazione renderà i poveri più poveri e i ricchi ancora più ricchi. Come dicevo, non stiamo diventando una società più giusta. Penso sempre a Martin Luther King, secondo cui “l’arco della storia tende sempre verso la giustizia”. Io ci credo. Quindi mi aspetto che con il tempo ci sarà una correzione a tutto questo caos negli Stati Uniti. Questa per ora è la mia previsione».

Lei è uno dei padri fondatori del legal thriller. Con «Presunto colpevole» fa tornare per l’ultima volta in tribunale il giudice e avvocato Rusty Sabich, 77 anni, alle prese con un caso dalle forti implicazioni razziali, specchio di un passato che in America non passa. La sua esplorazione dei meandri della giustizia, o forse dovremmo dire delle ingiustizie, non è mai finita.

«È un tema ricorrente nei miei romanzi. L’idea di giustizia è strettamente legata all’uso del potere. L’avvocato difensore si frappone tra l’imputato e lo Stato, il governo e il pubblico ministero; se il pubblico ministero è giusto, rappresenta il governo in modo giusto, è imparziale nel denunciare e punire le cattive condotte. La lotta per la giustizia è complessa: ciò che alcuni troverebbero sbagliato, altri lo considerano meno problematico».

L’omicidio di una giovane donna, che è l’appiglio di cronaca che dà il via a questo romanzo, è un crimine che richiede giustizia. Quando ha deciso di tornare a Rusty? «Questo libro ha avuto tre ispirazioni diverse. La prima, naturalmente, si è presentata nella mia mente nel 2010, appena terminato Innocente, che è il primo sequel di Presunto innocente che ho scritto. Avevo lasciato Rusty in uno stato di profonda angoscia. Sua moglie Barbara era morta, intossicata a causa di una dose di farmaci. Rusty non aveva alcuna intenzione di rimanere nella contea di Kindle. Così, alla fine del libro, si è allontanato in una sorta di esilio volontario, un esilio temporaneo. Io non volevo proprio lasciarlo lì. Dico spesso che Rusty Sabich è l’uomo che mi ha cambiato la vita. Sono sempre stato un grande fan dei libri di John Updike. Quando ho finito l’ultimo dei quattro romanzi su Rabbit, Harry Angstrom soprannominato “Coniglio”, scrissi a Updike una lettera piena di ammirazione. Gli dissi che non capivo proprio dove avesse trovato la forza morale di alzarsi ogni mattina e di scrivere un verdetto così cupo su un uomo che chiaramente amava. La sua creazione. Lo conosceva nel profondo, ma sentiva che era un fallimento come essere umano. Aveva avuto la possibilità di raggiungere la grazia, ma non è successo. Poi ho pensato: non ha senso che mi paragoni a Updike, anche se ero molto interessato al rapporto di uno scrittore con il suo personaggio. Spero di non essere stato troppo ottimista nella mia valutazione di Rusty, che è un uomo pieno di difetti, come ha dimostrato nei miei libri. Come le dicevo, non mi piaceva lasciarlo in quello stato penoso. Quindi mi sono detto: tornerò a Rusty a un certo punto. Ma ci sono altre due fonti di ispirazione. Per molti anni ho avuto una casa nel sud del Wisconsin. Si trova nei boschi, in una zona dove ci sono diverse fattorie. Ero sul prato davanti a casa, quattro o cinque anni fa, e ho pensato che nessuno scrive di zone come questa. Siamo tra Chicago e Milwaukee. L’atmosfera della città non è completamente svanita, siamo nell’hinterland americano e la gente del posto non ha le stesse pretese di un abitante della metropoli. Dovevo raccontare quest’area del Paese. Dovevo tornare a Rusty e dovevo ambientare la storia nei luoghi rurali ed extraurbani che conosco, che hanno preso la forma della Contea di Kindle del romanzo».

Torniamo, in chiusura, al tema principale della nostra intervista. Come dicevamo, Prevost ha passato la maggior parte della sua vita lontano dagli Stati Uniti. Come lo accoglieranno gli americani quando deciderà di tornare, da Papa, a Chicago?

«Chicago è una tra le più grandi arcidiocesi degli Stati Uniti, posso solo immaginare la festa che ci sarà quando il Papa deciderà di tornare a casa. Spero lo faccia presto. Ci sarò anche io a rendergli omaggio. Sarà una giornata di gioia per la nostra città e per l’America. Questo Papa è il meglio di Chicago e il meglio che gli Stati Uniti possano offrire al mondo».

Fonte: Marco Bruna int. SCOTT TUROW |FrancescoMacrìBlog.com

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