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La reporter morta a Gaza: “Amore mio, tutto ciò che ho fatto era per te”

“Ti chiedo di non piangere per me, ma di pregare per me, così che io possa restare serena”. La giornalista di Associated Press Mariam Abu Dagga stava documentando il bombardamento dell’ospedale Nasser quando sono arrivati altri colpi. Poco prima aveva scritto un messaggio al figlio di dodici anni. In fondo sono sempre le stesse cose che le madri di tutto il mondo sperano per i figli di tutto il mondo. La banalità della speranza. La normalità dei sogni che strazia nell’onda anomala della tragedia

La guerra non ha madre. Nessuno sa chi l’ha messa al mondo. Eppure, se sei madre a Gaza, la guerra è corpo tuo, utero tuo, casa tua. E poi, se sei madre e giornalista, la guerra scrive sulla carta della tua pelle. Tu non rimani, ma le tue parole restano. Come quelle che la reporter di Associated Press Mariam Abu Dagga, ha scritto al figlio di dodici anni evacuato negli Emirati Arabi poco prima che l’ennesimo bombardamento a cui assisteva mettesse fine alla sua vita lunedì 25 agosto 2025 nel raid all’ospedale Nasser, a Khan Younis, dove è stato colpito il quarto piano del reparto di chirurgia e dove hanno perso la vita con lei circa venti persone, fra cui cinque giornalisti: «Ghaith, cuore e anima di tua madre, ti chiedo di non piangere per me, ma di pregare per me, così che io possa restare serena».

Non si parla molto, però, delle giornaliste. Eroicamente, da una zona d’ombra ancora più densa di quella dei colleghi uomini, scrivono dello sterminio e sono scritte dallo sterminio. Si parla di loro quando muoiono. Così come, molti anni addietro, quando lo sguardo dell’Occidente era del tutto indifferente alla catastrofe umanitaria che seguitava a straziare Gaza, non si parlava molto del Gaza’s Surf Girl, il club delle donne surfiste. Per entrare in acqua dovevano superare difficoltà doppie rispetto agli uomini.
Mariam non è sola nella morte. Ci sono le sue colleghe, surfiste dell’anima e della memoria. Che devono superare le onde più grandi.
Per esempio, il rischio di essere, come lei, uccise o di rimanere invalide, la sfida di garantire la vita ai propri figli e alle proprie famiglie, ma anche il divieto di lavorare imposto da genitori o mariti, il divieto di accedere alle notizie notturne in quanto donne, la fame e la sete, la violenza di genere fisica e online.
E, oltre alle colleghe, per Mariam c’era un padre. Perché un padre a volte è anche una madre, un padre può avere un corpo che accoglie e un utero. E un rene di sua figlia: “Era una delle mie figlie più amate. Si prendeva cura di me e mi ha donato un rene, che mi è stato trapiantato. Era amata da tutti” ha scritto Riyad Dagga per ricordare sua figlia.

In fondo sono sempre le stesse cose che le madri di tutto il mondo sperano per i figli di tutto il mondo. La banalità della speranza. La normalità dei sogni che strazia nell’onda anomala della tragedia. Scriveva Mariam al figlio Ghaith: «Voglio che tu tenga la testa alta, che studi, che tu sia brillante e distinto, e che diventi un uomo che vale, capace di affrontare la vita, amore mio. Non dimenticare che io facevo di tutto per renderti felice, a tuo agio e in pace, e che tutto ciò che ho fatto era per te. Quando crescerai, ti sposerai e avrai una figlia, chiamala Mariam come me».
Sarà ingombrante per il figlio e per la nipote l’eredità. Ma anche leggera. Per Gaith “madre” sarà un verbo all’imperfetto. Un passato imperfetto. Una grammatica rotta e interrotta, fatta a pezzi.
Ma, grazie alla magia delle parole, una nipote è già nata nella mente di chi legge là dove non nasce niente. La possiamo già vedere. Quella bambina, forse, dimenticherà il passato solo ricordando. Forse, non dimenticherà il futuro.

Fonte: Nicoletta Bortolotti | FamigliaCristiana.it

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