Forse non è l’immagine più elegante dell’estate. Neanche la più dolorosa. Non strappa né fragorosi applausi a scena aperta, né lacrime silenti. Ma è sicuramente l’immagine più importante. La sequenza che ritrae Jannik Sinner tra le braccia di suo padre Hanspeter rende giustizia a una lunghissima stagione di crisi e smarrimento: qual è il ruolo del padre, quale quello del figlio, la loro relazione dai contorni inafferrabili, l’insicurezza dei padri impotenti, i silenzi dei figli che si sentono traditi… In proposito la letteratura, alta e bassa, a volte rasoterra, è infinita.
Poi, in una magica serata londinese destinata a restare nella storia patria, il vincitore del torneo di tennis più prestigioso al mondo, mai appannaggio d’un italiano, sale a due a due i gradini per correre ad abbracciare i suoi: allenatori, amici, il padre (la madre è appena un poco più su, la raggiungerà tra un attimo). E quel giovanotto di 23 anni, Jannik Sinner, si getta… no; si accosta… no; si fonde con suo padre.
L’immagine è una scultura, nessun dettaglio va ignorato. È il figlio ad appoggiare il capo sulla spalla del padre, il braccio sinistro abbandonato, quasi a dire: non mi serve, ci sei tu. Il figlio chiude gli occhi, sereno, affinché nulla lo possa distrarre. E di distrazioni attorno ne avrebbe a iosa. Il padre non lo stringe con energia, non serve, il suo non è un figlio in fuga da trattenere, un figlio bisognoso di protezione o di rassicurazioni. Il figlio sa che il padre c’era, c’è e ci sarà. Ha avuto il primo grosso, deciso segnale che il padre era presente, assieme alla madre, quando a 13 anni lo ha lasciato andare via. Non l’ha trattenuto per paura, poca fiducia, ansia. L’ha lasciato volare dalle Dolomiti di Sesto al mare di Bordighera, tutto un altro universo. Non l’ha stretto a sé in un abbraccio che sa di prigione, dietro l’apparenza della protezione. Gli ha dato fiducia.
Così adesso Jannik può appoggiare il capo sulla sua spalla, grato. E il padre gli sfiora appena la schiena perché sa che quello è un attimo e il figlio presto ripartirà per il suo viaggio meraviglioso. Gli occhiali scuri proteggono dal sole ma soprattutto dagli sguardi ingordi dei ladri di emozioni, quel pubblico vorace da cui tenersi alla larga.
Sono gente mite, i Sinner. Terribilmente anomala nel mondo del tennis, pieno di genitori allenatori, travestiti da feroci motivatori, che condannano figlie e figli alle vette della gloria sportiva e, troppo spesso, agli abissi della depressione e alla fuga disperata in un anonimato ormai impossibile. Ai genitori dei piccoli atleti, quelli bercianti sugli spalti con gli occhi iniettati di sangue, verrebbe da dire: prendete esempio da Hanspeter e Siglinde. Troppo facile, non lo faranno mai. Ma così non avranno mai un figlio che corre a donar loro un abbraccio fugace, gratuito, non richiesto; a occhi chiusi.
Quando a Sinner hanno chiesto: «Che cosa oggi ti rende più felice?», e lui ha risposto: «La presenza della mia famiglia», non stava fingendo. Era proprio lui, poco dopo averci donato l’immagine più importante dell’estate.
Fonte: Umberto Folena | Avvenire.it