Sopra La Notizia

La forza di un legame

Quando a mancare è il lavoro, il rischio principale resta la solitudine, quel male sottile che attraversa generazioni, ceti sociali e latitudini. Ecco perché la famiglia può essere il primo “antidoto”. A patto, però, di non idealizzarla

Quando si parla di lavoro precario si tende a ridurre tutto a una questione giuridico-contrattuale. Ma il precariato è innanzitutto una condizione esistenziale: l’impossibilità di fare progetti, di costruire legami, di immaginare il futuro. In una parola: solitudine.

La precarietà del lavoro è una delle forme più tangibili di quella solitudine che affligge la nostra epoca. Ma non è l’unica. Accanto al precariato professionale si affermano forme di solitudine affettiva, sociale, culturale. Siamo una società in cui i legami si sfilacciano, le relazioni si fanno intermittenti, i progetti comuni e di lunga durata diventano eccezione.

La solitudine è il tratto caratteristico del nostro tempo. È un male sottile e trasversale che attraversa generazioni, ceti sociali e latitudini. Un catalogo di fenomeni globali fotografa una civiltà dove la ricerca spasmodica di autonomia ha finito per produrre isolamento: hikikomori, neet, incel, ministeri della solitudine. Sono sintomi di un malessere diffuso che da marginale è diventato di sistema.

Anche in Italia questo vuoto relazionale si misura in numeri concreti. Le famiglie sono sempre più piccole: oggi contano in media 2,2 componenti, contro i 2,6 di vent’anni fa. Il tasso di fertilità è sceso a 1,18 figli per donna nel 2024 – il minimo storico – mentre gli over 80 hanno superato i bambini under 10. Anche il matrimonio arretra: nel 2023 si sono celebrati appena 175mila matrimoni (nel 1963 erano 355mila) e solo il 41% con rito religioso. L’età media alla prima unione è salita a 34,7 anni per gli uomini e 32,7 per le donne, mentre il primo figlio arriva ormai attorno ai 36 anni per i padri e ai 32 per le madri.

La solitudine è il tratto caratteristico del nostro tempo, un malessere diffuso che da marginale è diventato di sistema. Frutto anche di una cultura che disinveste nei legami

Dietro questi numeri non ci sono solo scelte individuali, ma l’effetto di una cultura che ha progressivamente disinvestito nei legami, trasformando la ricerca di autonomia in una condizione diffusa di solitudine. Il settimanale Vita, nel novembre 2024, ha dedicato un numero monografico alla domanda: “Perché non vogliamo figli?”, raccogliendo testimonianze di giovani tra i 20 e i 25 anni. Ne emerge un quadro nitido: eco-ansia, precarietà economica, difficoltà di conciliazione tra figli e lavoro, ma anche modelli di vita che non considerano più il costruire una famiglia come lo sbocco naturale dell’età adulta.

Queste tendenze trovano conferma anche nel Rapporto Giovani 2025 dell’Istituto Toniolo, che da anni documenta l’ampliarsi del divario tra il numero di figli desiderati e quello effettivamente avuti, insieme all’incremento della quota di giovani che dichiara di non volerne affatto. La scelta di non avere figli non è più percepita come una rinuncia, ma sempre più spesso come un’affermazione di libertà. Da childless a childfree (da senza-figli a liberi-dai-figli): cambia il linguaggio, cambia l’immaginario. Ma l’esito, in molti casi, è una solitudine strutturale, solo parzialmente compensata da relazioni intermittenti o surrogati affettivi.

Eppure, i dati ci raccontano anche altro. Decenni di studi in ambito sociologico, medico, psicologico ed economico confermano che vivere in un contesto familiare stabile – soprattutto se sancito da un patto duraturo come il matrimonio – è associato a livelli più alti di benessere soggettivo, salute mentale, longevità ed anche stabilità e prosperità economica. La famiglia resta, per molti, la migliore possibile scommessa sul proprio futuro.

Il precariato non è solo un problema economico o occupazionale. La precarietà è una condizione antropologica che attraversa l’intera trama dei rapporti umani

La famiglia come antidoto alla precarietà esistenziale, dunque, ma questo non significa sostenere che ci si debba sposare o fare figli per compensare la precarietà del lavoro. Sarebbe un cortocircuito pericoloso. Il messaggio è piuttosto quello di non guardare al precariato solo come ad un problema economico o occupazionale. La precarietà è una condizione antropologica che attraversa l’intera trama dei rapporti umani: dal lavoro agli affetti, dalle reti sociali alla capacità stessa di progettare insieme. È una condizione che svuota la vita di senso e relazioni, compromettendo le prospettive di futuro e la qualità dei legami.

Se vogliamo davvero contrastare questa fragilità diffusa, dobbiamo farlo in modo integrale. Serve un’alleanza tra politiche del lavoro e politiche familiari e della natalità, tra imprese e comunità. Perché individui meno precari sul lavoro sono più propensi a costruire famiglie, e persone che vivono relazioni affettive stabili sono lavoratori più sereni, resilienti, capaci di affrontare l’incertezza e le sfide del presente.

In questo scenario, la famiglia può essere – e in molti casi è – il primo laboratorio di relazioni stabili e il miglior antidoto contro la solitudine che attraversa le società avanzate. Ma non può essere idealizzata né invocata astrattamente: ha bisogno di condizioni abilitanti, di politiche coerenti, di un contesto che renda possibile e desiderabile investire nei legami.

La battaglia contro il precariato è dunque una battaglia generale per la qualità delle relazioni. Perché legami solidi, duraturi, fondati su alleanze e non su rapporti frammentari e contratti a termine, generano benessere, fiducia e felicità in ogni ambito dell’esperienza umana.

Fonte: Matteo Rizzolli*| Clonline.org

*Economista – Lumsa, Roma

Newsletter

Ogni giorno riceverai i nuovi articoli del nostro sito comodamente sulla tua posta elettronica.

Contatti

Sopra la Notizia

Tele Liguria Sud

Piazzale Giovanni XXIII
19121 La Spezia
info@sopralanotizia.it

Powered by


EL Informatica & Multimedia