La famiglia come antidoto alla precarietà esistenziale, dunque, ma questo non significa sostenere che ci si debba sposare o fare figli per compensare la precarietà del lavoro. Sarebbe un cortocircuito pericoloso. Il messaggio è piuttosto quello di non guardare al precariato solo come ad un problema economico o occupazionale. La precarietà è una condizione antropologica che attraversa l’intera trama dei rapporti umani: dal lavoro agli affetti, dalle reti sociali alla capacità stessa di progettare insieme. È una condizione che svuota la vita di senso e relazioni, compromettendo le prospettive di futuro e la qualità dei legami.
Se vogliamo davvero contrastare questa fragilità diffusa, dobbiamo farlo in modo integrale. Serve un’alleanza tra politiche del lavoro e politiche familiari e della natalità, tra imprese e comunità. Perché individui meno precari sul lavoro sono più propensi a costruire famiglie, e persone che vivono relazioni affettive stabili sono lavoratori più sereni, resilienti, capaci di affrontare l’incertezza e le sfide del presente.
In questo scenario, la famiglia può essere – e in molti casi è – il primo laboratorio di relazioni stabili e il miglior antidoto contro la solitudine che attraversa le società avanzate. Ma non può essere idealizzata né invocata astrattamente: ha bisogno di condizioni abilitanti, di politiche coerenti, di un contesto che renda possibile e desiderabile investire nei legami.
La battaglia contro il precariato è dunque una battaglia generale per la qualità delle relazioni. Perché legami solidi, duraturi, fondati su alleanze e non su rapporti frammentari e contratti a termine, generano benessere, fiducia e felicità in ogni ambito dell’esperienza umana.
Fonte: Matteo Rizzolli*| Clonline.org
*Economista – Lumsa, Roma