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Che natale sei?

Il 4 dicembre di 50 anni fa moriva la filosofa ebrea Hannah Arendt, autrice di queste righe: «Il corso della vita umana diretto verso la morte ci condurrebbe alla rovina e alla distruzione se non fosse per la facoltà di interromperlo e di iniziare qualcosa di nuovo, una facoltà che ci ricorda che gli uomini, anche se devono morire, non sono nati per morire ma per incominciare» (Vita activaLa condizione umana). Era il 1958, bisognava fare i conti con il più grande cimitero a cielo aperto della storia umana costruito dai totalitarismi e partire da nuove basi: “Il miracolo che preserva il mondo dalla sua naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è radicata la facoltà di agire”.

Arendt non usa nascita ma natalità per riferirsi alla capacità umana di introdurre l’inatteso nella storia, di cui il nascere è il primo atto. Dal momento che in italiano natalità fa pensare soltanto alla demografia, mi servirei di “natività”, da noi usato per la nascita di Cristo, perché dà il giusto peso al concetto di “inizio”: saresti potuto non esserci e invece ci sei, questo cambia la storia. Come sarebbe il mondo se tu non fossi nato? Quale novità sei e fai solo tu? Per capirlo consiglio di riguardare La vita è meravigliosa di Frank Capra, in cui a George Bailey, che vuole suicidarsi, viene concesso di vedere in anticipo come andrebbe il mondo senza di lui: che cosa cambierebbe se tu non ci fossi? Questo manca nella nostra cultura e quindi nell’educazione: non ci si percepisce come iniziatori ma come consumatori. Abbiamo bisogno di “natività”: come recuperarla?

Arendt si ispira a un passo di Agostino: “Creatus est homo ut esset initium” (Confessioni XI, 31: “L’uomo è stato creato per essere un inizio”), in cui riflette sulla creazione del tempo da parte di un Dio fuori dal tempo, sostenendo che l’uomo è causa del tempo proprio perché nasce, inizia ad esserci. Persino Dio, nella narrazione cristiana, nasce, e così dà un nuovo corso alla storia da dentro la storia, come è dato fare a tutti e ciascuno di noi.

Nascere è divino. Ma quando questa fiducia nella “natività” diventa debole, allora la morte diventa una passione, come nella storia è accaduto a tutte le culture in crisi. Lo mostrano oggi guerre e riarmi, il tasso di suicidi dei giovani (seconda causa di morte in Occidente), la crisi della natalità e la distruzione del creato. Il recente suicidio delle gemelle Kessler racconta che la gioia di cui erano simbolo era provvisoria quanto uno spettacolo. Lo aveva intuito Leopardi nel suo Dialogo tra la Moda e la Morte in cui la prima scopre di essere sorella minore della seconda. Qual è invece la sorella minore della “natività”? Non ciò che passa, la moda, ma ciò resta, la vita. Qualche giorno fa ho contemplato al Museo diocesano di Milano l’opera in esposizione per Natale, una bellissima natività di Lorenzo Lotto, abitualmente alla Pinacoteca Nazionale di Siena, raccontata da una prospettiva curiosa: il bagno di Gesù Bambino.

Il quadro (1525) del geniale e inquieto pittore rinascimentale lascia da parte architetture complesse e regine in drappi eleganti, e rappresenta la quotidianità di una casa contadina (allora l’artista lavorava a Bergamo): una levatrice, un uomo sgomento, una donna che in un angolo riscalda un panno, una tazza con il cucchiaio, il paiolo della polenta usato come vaschetta, il bambino nudo che si ritrae dall’acqua fredda e ha ancora, dettaglio più unico che raro, un pezzetto del cordone ombelicale. Al centro della scena (il quadro nel tempo si è rovinato ed è stato tagliato celandone il vero fulcro geometrico) c’è il volto luminoso e gioioso della giovane madre.

È il bagno di un neonato, niente di più, eppure è un capolavoro che ha 500 anni. Perché? Perché ci fa vedere lo straordinario dell’ordinario, la “natività” di ciascuno è un miracolo, cambia il corso della storia. Il cordone ombelicale lo ricorda con realismo scandaloso: se ci guardiamo la pancia scopriamo di non esserci fatti da soli come crede l’eroe del nostro tempo, il self-made man, l’uomo della potenza, che non crede di aver ricevuto nulla e quindi tutto consuma.

Nella narrazione evangelica infatti nessuno si accorge della nascita di Dio, perché non c’è niente di straordinario, e proprio questo è straordinario: è nato, ha l’ombelico, fa il compleanno, come tutti noi. Una cultura costruita sulla natività è piena di energia vitale perché ha fiducia nell’azione umana come capacità di dare inizio a una storia nuova, sempre Agostino diceva che non sono i tempi a essere buoni o cattivi, ma noi. E quel bambino ha infatti cambiato la storia se siamo ancora qui a festeggiare. Guardarsi l’ombelico, in senso letterale, aiuta a posizionarsi: non sono apparso dal nulla, sono stato dato a me e al mondo, ho ricevuto la vita per fare altra vita, sono un inizio.

Ma di che cosa? Festeggiare il Natale (la “natività”), credenti o no, significa ricordarsi che siamo fatti per cominciare e non per finire, per dare la vita e non per lottare contro la morte. Siamo esseri che sanno di dover morire, ma ancora di più che sanno di dover nascere: si nasce una prima volta il giorno del parto ma poi bisogna nascere continuamente dando inizio a cose che solo noi possiamo inaugurare e nessuno al posto nostro.

Se i Greci privilegiavano l’ombra intendendo con “i mortali” gli uomini, noi, privilegiando (il venire al-) la luce, dovremmo chiamarci “i natali”, cioè coloro che, per il fatto di esser nati, sono chiamati a nascere di più e a far nascere di più. Il Natale è l’unico compleanno in cui i regali non si fanno al festeggiato ma agli invitati, perché è il compleanno di tutti i compleanni: un Dio che dà la vita agli uomini, non vuole la loro.

Una cultura della natività non rende il bambino un idolo (cosa che serve in realtà all’egoismo e al compiacimento dell’adulto), ma il protagonista di un inizio, cioè lo vuole consapevole e quindi responsabile della vita ricevuta perché ne faccia altra, e non ne sia un mero consumatore come vedo fare a tanti bambini e adolescenti che vivono come se tutto fosse dovuto e non donato. Per questo una ragazza che fa il bagno al suo bambino può essere il soggetto di un capolavoro come quello di Lotto, perché contiene ciò che c’è da sapere sulla vita per farne un’opera d’arte: perché sei venuto al mondo? Di che cosa sei inizio? Quale tempo si inaugura con te? Se tu sparissi che cosa mancherebbe alla storia umana? Tu, che natale sei?

Fonte: Alessandro D’Avenia | Corriere.it

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