Il Paese guidato da Xi Jinping vuole fabbricare tutto, dal giocattolo all’aereo di nuova generazione. Il risultato è un sistema che produce più di quanto possa consumare. Per contrastare questa potenza serve una «Nato del commercio»
Marco Polo ci raccontò le meraviglie della Cina antica, l’Impero Celeste del Kublai Khan. Le sue descrizioni apparvero talmente esagerate che i contemporanei affibbiarono al suo resoconto un titolo un po’ beffardo. “Il Milione” – nome scelto da altri, non dall’autore – insinuava il sospetto che il narratore fosse un contaballe. Oggi a dirci le meraviglie della Cina contemporanea è un’altra cifra spropositata: “Il Trilione”. La Repubblica Popolare ha tagliato un traguardo che nessun Paese aveva mai sfiorato: un surplus commerciale annuo oltre il trilione di dollari, cioè i mille miliardi. È un trionfo per la «fabbrica del pianeta». Ma non è un traguardo innocuo. Qualcuno paga il conto.
L’invasione di merci cinesi sta seguendo rotte nuove, è sempre meno orientata verso l’America (mercato che si chiude), quindi viene dirottata altrove. L’Europa è fra le vittime di questo tsunami di export. Ragion per cui tutti i dispetti e le offese che Donald Trump infligge all’Unione europea non cambiano la realtà: il Vecchio continente non ha alcun interesse a cercare un’alleanza con Pechino (e i suoi leader lo sanno).
Nei primi undici mesi dell’anno l’export cinese verso tutto il resto del mondo ha raggiunto 3.400 miliardi di dollari; le importazioni si sono fermate a 2.300; il saldo attivo ha toccato 1.080 miliardi. È un vertice mai registrato nella storia economica moderna. Per Pechino è un trofeo geopolitico, la prova che quarant’anni di industrializzazione pianificata hanno trasformato la nazione agricola e povera del 1980 nel motore manifatturiero del XXI secolo. Ma dietro al record c’è qualcosa di più grande: la Cina cresce, il resto del mondo rallenta sotto il peso di quella crescita.
Nella propaganda ufficiale Pechino ama presentarsi come paladina del libero scambio contro le tentazioni protezioniste occidentali. I numeri dicono il contrario. Le esportazioni cinesi corrono (+5,4% da gennaio a novembre), le importazioni rallentano (–0,6%). La Cina vende al mondo molto più di quanto compri e questa asimmetria peggiora di continuo. Non accade per caso: è la conseguenza di un modello economico sbilanciato strutturalmente sull’export, sostenuto da credito pubblico, pianificazione statale e da un apparato produttivo che oggi domina tutto lo spettro industriale, dai giocattoli ai pannelli solari, dalle scarpe ai semiconduttori, fino alle auto elettriche.
I dazi imposti da Trump — ora stabilizzati intorno a una media del 37% — hanno ridotto le esportazioni verso gli Stati Uniti (–29% a novembre). Ma la Cina ha ripiegato altrove: Africa +26%, Sud-Est asiatico +14%, America Latina +7,1%, Europa +15%. La deterrenza tariffaria americana ha spostato i flussi, non li ha prosciugati.
L’impatto si sente soprattutto in Europa. Macron, di ritorno da Pechino, ha lanciato un avvertimento inconsueto: se la Cina non correggerà lo squilibrio, l’UE dovrà reagire con «misure forti», ha detto, evocando persino dazi allineati a quelle americane. La rabbia francese ha una radice concreta: l’euro si è rivalutato del 10% sul renminbi-yuan quest’anno, rendendo la concorrenza cinese ancora più aggressiva. Dalle lamentele europee alle indagini antidumping in America Latina, fino ai dazi varati dal Canada sulle auto elettriche cinesi, la lista dei paesi irritati da questo surplus infinito si allunga. «La domanda non è se ci saranno nuove misure di difesa commerciale. È quante», avverte Jens Eskelund, presidente della Camera di Commercio UE a Pechino. In volume, calcola, ogni container che parte dall’Europa verso la Cina è controbilanciato da quattro container in direzione opposta. Un rapporto 4 contro1 che nessun equilibrio di mercato può sostenere a lungo.
Greg Ip, analista del Wall Street Journal molto critico verso i dazi di Trump, è tuttavia spietato nella sua diagnosi sugli effetti distruttivi della Cina. In passato, ricorda Ip, quando la Cina cresceva trainava anche i suoi partner: per ogni punto di PIL cinese, la crescita del resto del mondo aumentava di circa 0,2 punti. Oggi l’effetto si è invertito. La crescita cinese sottrae crescita al resto del pianeta. Goldman Sachs calcola che nei prossimi anni la Cina crescerà di circa 0,6 punti percentuali più velocemente del ritmo globale, ma questo genererà –0,1 punti di crescita annua nel resto del mondo. Tradotto: un export così dominante trasforma la prosperità cinese in recessione industriale altrove. Perché sta accadendo? Ip individua la radice nel pensiero strategico di Xi Jinping. Nel 2020 il leader cinese battezza la dottrina della «circolazione duale»: vuole ridurre la dipendenza dall’estero, garantire autosufficienza tecnologica, controllare le filiere globali chiave (chip, batterie, minerali strategici), fare della manifattura il cuore permanente dell’economia cinese, conquistare una leadership nelle tecnologie avanzate senza mai abbandonare la produzione low-cost. Diversamente da Giappone, Germania e Corea nel dopoguerra, la Cina non ha interesse a lasciare ad altri i segmenti maturi a basso margine. Vuole fabbricare tutto, dal giocattolo all’aereo di nuova generazione. Il risultato è un sistema che produce più di quanto possa consumare.
L’eccesso viene esportato: dumping deflazionistico, prezzi stracciati che schiacciano la redditività industriale occidentale. Buona notizia per chi compra, pessima per chi produce. L’industria dell’auto è il simbolo di questo choc. Due decenni fa gli stranieri dominavano la vendita di automobili in Cina con il 60% del mercato. Oggi le vetture elettriche cinesi hanno ribaltato i rapporti: quota straniera sotto il 40%. La potenza cinese non si misura solo nei volumi commerciali ma nella capacità di ritorsione e ricatto. Quando l’Olanda tenta di limitare il controllo cinese su Nexperia, Pechino risponde bloccando l’export di chip, paralizzando catene di assemblaggio europee. Amsterdam si piega. La stessa logica è stata applicata al litio, ai minerali critici, all’agroalimentare canadese.
Che fare? La risposta ideale secondo Ip sarebbe un fronte comune tra Usa, Ue, Giappone, Corea, Canada, Messico e Australia, con tariffe coordinate e standard industriali condivisi. Una «Nato del commercio». Ma al momento la politica rema in direzione opposta. Trump negozia bilateralmente, preferisce pressioni individuali. L’Europa esita, divisa tra la necessità di difesa industriale e il timore di perdere l’accesso al mercato cinese. I paesi nordamericani oscillano: Canada copia i dazi americani sulle auto cinesi, poi si ritrova schiacciata in una doppia ritorsione USA–Cina e riconsidera tutto. Se i governi reagiscono da soli, rischiamo una spirale protezionista caotica: non un nuovo ordine, ma un disordine commerciale globale, con blocchi regionali in competizione e un mondo più povero e più frammentato. Anche perché i fondamentali macro cinesi non stanno cambiando: domanda interna debole, consumi bassi, investimenti pubblici altissimi, capacità produttiva sovradimensionata. Finché il mercato interno non assorbirà più produzione, la Cina avrà un incentivo permanente a inondare l’estero di merci, mantenendo prezzi bassi, margini sottili e surplus record. La domanda finale è politica, non statistica.
Il trilione non è solo un numero. È il simbolo di una nuova era geoeconomica, in cui la supremazia industriale cinese è un fattore di tensione sistemica: se la Cina continua a crescere con questo modello, qualcuno nel mondo dovrà pagare il conto. I numeri sono implacabili. Perciò le elucubrazioni su un’alleanza Europa-Cina per castigare Trump hanno avuto qualche spazio sui media, ma nessun leader europeo le ha mai prese sul serio. Per quanto Trump e Vance vogliano danneggiare l’Europa nei loro sogni più selvaggi, il male che possono fare non è comparabile al danno concreto, materiale e quotidiano, che la Cina sta infliggendo alle economie del Vecchio continente.
Fonte: Federico Rampini | Corriere.it