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Giustizia in Mare Aperto: Il Naufragio dell’Etica in Billy Budd

In questo articolo si esplora Billy Budd di Herman Melville come dramma dell’etica tragica, dove il conflitto tra legalità e giustizia si manifesta nella forma pura del destino tragico. Il giovane marinaio diventa figura cristica e prometeica, mentre il capitano Vere incarna la lacerazione moderna tra norma e coscienza. Un romanzo breve che interroga radicalmente il fondamento stesso della Legge.

La trama come parabola tragica

Billy Budd, racconto postumo di Herman Melville (pubblicato nel 1924), si svolge alla fine del XVIII secolo, sul vascello da guerra britannico Indomitable, durante un’epoca segnata dalle rivoluzioni e dai moti di rivolta navale. Il protagonista, Billy, è un giovane marinaio idealizzato, reclutato forzatamente da una nave mercantile. Dotato di bellezza fisica e innocenza quasi infantile, Billy attira l’invidia e l’odio del maestro d’armi John Claggart, che lo accusa falsamente di ammutinamento. Di fronte all’accusa, Billy – balbuziente sotto stress – reagisce con un pugno istintivo che uccide Claggart sul colpo. Il capitano Vere, pur consapevole dell’innocenza morale del giovane, lo fa processare e giustiziare per preservare la disciplina e l’ordine della marina. In questa tensione tra l’umanità e la legge, tra verità e dovere, si consuma il dramma filosofico del romanzo.

L’innocente colpevole: figura dell’“eroe tragico”

Billy è l’eroe tragico per eccellenza, l’“innocente colpevole” di cui ha scritto Kierkegaard. La sua colpa non è morale, bensì esistenziale: è colpevole in quanto la sua innocenza assoluta, la sua cristallina incapacità di comprendere il male, lo rende inassimilabile al mondo della Legge. Billy non può essere integrato, né “giustificato”; non può nemmeno essere interpretato. La sua stessa esistenza è una provocazione all’ordine costituito, una pietra d’inciampo sulla via del potere che ha bisogno della colpa per funzionare. Il potere non può tollerare l’assoluto, e l’innocenza è la forma più radicale dell’assoluto.

Come nell’Antigone sofoclea, la purezza diventa il bersaglio dell’autorità. Anche Billy, come la figlia di Edipo, compie un gesto “giusto” ma fuori legge, e per questo deve morire. La sua azione – l’uccisione involontaria di Claggart – è retta da un impulso elementare, corporeo, e non da una volontà colpevole. Ma la Legge non distingue: essa punisce l’atto, non l’intenzione. In questo senso Billy rappresenta, secondo la lezione di Giorgio Agamben, l’homo sacer, la figura liminale che può essere uccisa ma non sacrificata. È un corpo che la sovranità deve eliminare per confermare il proprio potere.

Il capitano Vere, emblema del conflitto tra coscienza e dovere, tra ragione e norma, si trasforma in figura tragica anch’egli, ma tragica perché impotente. Sa che Billy è innocente, eppure lo condanna, fedele a una concezione della Legge come meccanismo cieco, impersonale, che per sopravvivere ha bisogno di sacrifici rituali. La legge non può conoscere eccezioni, dice Vere, e in questa frase risuona l’eco del Leviatano hobbesiano: la sovranità si fonda non sul giusto, ma sul comando.

In Billy Budd, l’etica non è dialettizzabile. Non può essere ridotta a morale, né conciliata con il diritto positivo. È una forza tragica, originaria, come quella che Nietzsche ha riconosciuto nel Dioniso greco: un’ebbrezza innocente che finisce per distruggere se stessa perché troppo pura per il mondo. Billy è, in questo senso, un Cristo senza resurrezione, una figura messianica svuotata di ogni speranza di redenzione. La sua morte non salva, non redime, ma svela – tragicamente – l’impossibilità della giustizia nel mondo del potere.

La grandezza di Melville sta proprio nel non offrire vie d’uscita. Non c’è consolazione

Il capitano Vere: Giudice di se stesso

La figura del capitano Vere, in Billy Budd, è forse la più tragica e modernamente inquietante dell’intero racconto, proprio perché incarna una contraddizione insanabile tra coscienza morale e dovere istituzionale. Non è un carnefice mosso da crudeltà, né un burocrate ottuso: è un uomo colto, riflessivo, interiormente combattuto. Quando Billy uccide Claggart in un impeto di istintiva difesa, Vere non lo interpreta come un crimine premeditato, ma come un gesto tragico, umano, quasi inevitabile. Eppure, proprio lui – che intuisce l’innocenza profonda di Billy, la sua purezza d’animo e la sua totale incapacità di malizia – è colui che lo condanna a morte. Perché?

In Vere, la Legge non è più l’espressione di una giustizia razionale e condivisa, ma si mostra come nomos anomico, cioè come comando privo di fondamento etico, pura forza normativa che si impone nella sua nudità. È la Legge nella sua forma più cruda: non quella che salva, ma quella che ordina, impone, e nel farlo distrugge. Vere è dunque l’uomo del diritto che si fa esecutore di un ordine che non riconosce come giusto, ma che ritiene necessario per evitare che l’intero corpo della nave – e per estensione, quello dello Stato – sprofondi nel caos. Il paradosso è proprio questo: egli sa, ma non può fare altrimenti.

In tale configurazione, il capitano Vere si avvicina alla figura tragica delineata da Kierkegaard in Timore e tremore, dove Abramo è chiamato a sacrificare Isacco in obbedienza a un comando divino superiore all’etica. Ma nel caso di Vere, l’“Assoluto” non è Dio: è lo Stato, il potere impersonale e astratto che reclama obbedienza cieca. È la secolarizzazione del comando divino, spogliato di ogni trascendenza ma non della sua forza coercitiva. La sua tragedia è quindi tutta moderna: non è lacerato tra fede e ragione, ma tra coscienza e dovere, tra umanità e istituzione.

In questo senso, Vere è il vero tragico melvilliano, molto più di Billy stesso. Perché Billy agisce d’impulso, senza comprendere la portata delle sue azioni; Vere invece comprende tutto, e proprio per questo è costretto ad agire contro la propria volontà profonda. Il suo dramma è quello dell’uomo che non può più credere che la legge e la giustizia coincidano, ma che deve ugualmente applicare la legge. È la tragedia della modernità, in cui l’etica individuale viene schiacciata dall’imperativo dell’ordine collettivo. In questo cortocircuito tra coscienza e norma, tra sapere e obbedienza, si consuma il suo destino: non come eroe, né come tiranno, ma come testimone lucido e impotente di un mondo in cui il diritto ha perso la sua anima.

Etica, Legge e Modernità

In Billy Budd, Melville costruisce una parabola che anticipa le grandi lacerazioni del pensiero giuridico e morale contemporaneo. Il diritto positivo si dimostra inadeguato a contenere l’eccesso dell’etica, e tuttavia si impone su di essa in nome della sopravvivenza collettiva. La Legge non è qui giustizia, bensì potere disciplinante. La vera tragedia è che Billy viene sacrificato non per “dovere” in senso kantiano, ma per “paura” – quella del caos, dell’ammutinamento, del disordine. Così, Billy Budd denuncia la radicale crisi della sovranità moderna: nessun giudizio può pretendere neutralità, e ogni sentenza si porta dentro la colpa del giudice.

Billy Budd come figura messianica

Billy Budd si configura, in modo sempre più evidente man mano che il racconto procede, come una figura cristica, un innocente sacrificato sull’altare dell’ordine. Come Cristo, Billy è tradito, accusato ingiustamente, processato senza colpa e infine messo a morte nel silenzio dell’innocenza. La sua incapacità di articolare una difesa durante il processo – non per ignoranza, ma per un’inadeguatezza quasi ontologica al linguaggio della legge – è speculare al silenzio del Cristo di fronte a Pilato: un silenzio che non è colpevole, ma sacrale. In Billy, la giustizia divina e quella umana non si incontrano mai: anzi, si escludono.

Il suo ultimo gesto – “Benedite il capitano Vere!” – riecheggia profondamente le parole di Cristo sulla croce: “Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno.” Ma se nel Vangelo quel perdono è un gesto che apre alla speranza, al possibile riscatto dell’umanità, in Billy Budd esso cade nel vuoto. Il romanzo non contempla redenzione. Non c’è resurrezione, non c’è Epifania: il corpo resta lì, impiccato, esposto al potere muto della legge. Nessuna colomba discende dal cielo, nessuna voce consola. Solo il vento e il silenzio.

Questo è il cuore del nichilismo melvilliano: la struttura messianica è presente, ma privata del suo compimento. È un messianismo svuotato, “senza speranza”, come scriverà più tardi Walter Benjamin. La salvezza non è più possibile nella storia, perché la storia è ormai dominata da un diritto spogliato di ogni grazia. In Billy Budd, Melville sembra prefigurare l’epoca moderna come il tempo della morte del sacro, in cui il potere ha divorato la possibilità stessa di redenzione. Non si tratta di un semplice ateismo, ma di una teologia negativa del moderno, in cui il diritto ha preso il posto di Dio, ma senza la sua misericordia.

Il sacrificio di Billy non ha funzione salvifica: non redime né converte, non cambia l’ordine delle cose. È un sacrificio sterile, una morte che serve solo a mantenere l’equilibrio dell’apparato militare, l’ordine simbolico della nave – metafora evidente dello Stato moderno. La sua purezza, anziché trionfare sul male, viene eliminata perché rappresenta una minaccia all’equilibrio della norma, una verità che il diritto non può tollerare. In questa sostituzione della grazia con il calcolo, del perdono con la disciplina, si coglie l’essenza tragica della modernità giuridica: la salvezza è stata sacrificata in nome della sicurezza.

Melville, dunque, non costruisce solo un’allegoria cristologica, ma la decostruisce dall’interno, mostrando il fallimento di ogni escatologia. Il suo è un Vangelo capovolto, dove il Cristo muore e nessuno risorge, dove l’innocenza è condannata non dal peccato, ma dalla legge stessa, e dove l’ultimo atto di benedizione è assorbito, ignorato, soffocato dalla macchina del potere. Non resta che il vuoto, il silenzio, la nave che continua a navigare – con un uomo in meno, e nessuna coscienza in più.

Conclusione: oltre il diritto

Leggere Billy Budd oggi significa confrontarsi con il volto spettrale della Legge quando, per sopravvivere, rinuncia alla giustizia. Non si tratta di una distorsione accidentale del diritto, ma di una sua verità strutturale: la legge può uccidere anche quando funziona perfettamente. Melville non accusa un singolo colpevole, ma svela l’impersonale violenza insita nei meccanismi del potere, soprattutto quando essi si separano dalla dimensione irriducibile dell’etica. In questo senso, Billy Budd è una ferita aperta nella coscienza moderna: non offre catarsi, ma un dolore che resta.

Fonte: Daniele Onori | CentroStudiLivatino.it

Bibliografia essenziale

  • Melville, H. Billy Budd, Sailor. Trad. it. Einaudi, 1992.
  • Cacciari, M. Il potere che frena. Adelphi, 2010.
  • Kierkegaard, S. Timore e tremore. Trad. it. Bompiani, 1993.
  • Agamben, G. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita. Einaudi, 1995.
  • Arendt, H. Responsabilità e giudizio. Einaudi, 2004.
  • Derrida, J. Forza di legge. Il “fondamento mistico dell’autorità”. Bollati Boringhieri, 2003.
  • Schmitt, C. Teologia politica. Laterza, 2005.

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