Dal Sudan, allo Yemen: attenzione a non lasciarci anestetizzare
Fame è una parola strana, astratta eppure materica. Un processo di lotta del corpo. Studiamo accuratamente i processi della fame, eppure non abbiamo idea di che cosa sia veramente, noi che ne parliamo in un pianeta che produce cibo per nutrire una volta e mezzo in più la popolazione che lo abita. La fame nega anche l’accesso all’acqua, alla casa, alla salute. Fame è una parola politica, più che umanitaria. Ha a che fare con il potere sulla terra. Lo sappiamo dalla ignobile storia delle potenze coloniali nei secoli scorsi. Lo constatiamo con quanto sta accadendo in Palestina sotto gli occhi del mondo da quando il governo israeliano ha annunciato la sua campagna di assedio per fame contro Gaza. Nel dicembre 2023 i palestinesi nella Striscia erano già l’80% della popolazione mondiale esposta alla “fame catastrofica”, secondo l’Onu: mai, dalla seconda metà del Novecento, una popolazione era stata ridotta a una fame così brutale, veloce e diffusa come i 2,3 milioni di palestinesi residenti a Gaza.
La parola è però buona anche per gli altri conflitti. Per il Sudan, dove 25 milioni di civili sono in fuga e le parti combattenti usano il cibo come arma, con il rischio di un altro genocidio che coinvolge anche imprese straniere. Il disimpegno umanitario americano ha smantellato l’80% delle cucine comunitarie, condannando 2 milioni di persone alla totale penuria di cibo. Per lo Yemen: nove anni di guerra hanno incistato la fame come piaga cronica, mentre il ritiro di UsAid ha chiuso il programma per identificarne i focolai più gravi tra i bambini.
Fame è una parola che abbraccia numerose vite, e significati. Ma una parola sfibrata, deprecabile. Politici da strapazzo e pennivendoli di ogni stagione l’hanno usata a cuor leggero, neutralizzandola. “ La fame nel mondo”, “lottare contro la fame”: sono frasi fatte, variazioni di un luogo comune persino sarcastico, per ridicolizzare l’orizzonte di certe aspirazioni. Il problema con parole così dense di storia eppure usurate è che un giorno, all’improvviso, tornano con dirompente novità di manifestazione. Oggi le sperimentiamo live nei blocchi sempre più frequenti, nella lotta alla sopravvivenza di chi cerca il cibo, nell’azione irreversibile che svuota i corpi, raggrinzisce le persone, paralizza le membra.
Fame è una parola conturbante. Una forma di tortura. Tecnici ed esperti del mestiere tendenzialmente la evitano, forse per coscienza professionale, forse non reputandola sufficientemente esatta. E così si adoperano a coniare locuzioni asettiche come denutrizione, malnutrizione, o l’eufemismo triste di un mondo che ha ceduto i diritti umani al principio della sicurezza, per negarla: insicurezza alimentare. La sfida estrema per milioni di persone si traveste così in capillari misurazioni di deperimento, descritte minuziosamente per fasi in rapporti comprensibili a pochi. La terminologia tecnica, del resto, ha l’indubbio vantaggio di non suscitare emozioni. Così i concetti finiscono per confondersi, e per confondere, nella ricerca di dati che – per beffarda ironia – sono sempre più difficili da raccogliere quando l’accesso all’aiuto umanitario è negato. Ma la fame non esiste al di fuori delle persone che la soffrono. La fame è quelle persone.
Donne, bambini e anziani le fasce più vulnerabili, con un impatto di lunga gittata che dirotta le generazioni future, il destino di un Paese. Distruggendo e avvelenando la terra a vocazione agricola, decimando i porti e le barche da pesca, Israele ha distrutto circa il 93% dell’economia di Gaza, come ha scritto la Banca Mondiale alla fine del 2024. Affamare i palestinesi, tuttavia, è una vecchia tattica di occupazione, spiegata in decine di rapporti delle Nazioni Unite: come rendiconta l’esperto sul diritto al cibo dell’Onu, Michael Fawkri, Israele ha storicamente usato la distribuzione del cibo come forma di assedio della popolazione. L’idea are quella di «tenere i palestinesi a dieta, ma senza
farli morire di fame», con le parole dell’ex primo ministro Ehud Olmert. Prima del 7 ottobre, la metà della popolazione di Gaza campava di insicurezza alimentare, e oltre l’80% dipendeva dagli aiuti umanitari. L’assedio totale dell’Idf ha immediatamente innescato la fame.
La fame è un trauma sociale che si ripercuote per generazioni. Un bambino ridotto alla fame nei primi mille giorni di vita avrà perduto per sempre la possibilità di sviluppare i neuroni e crescere come avrebbe dovuto. Il suo cervello non potrà avere uno sviluppo cognitivo compiuto. Il suo corpo, o quello che resta, sarà facile preda di malattie, a vita. Causa danni fisici e psicologici a tutti i suoi sopravvissuti. Il senso di colpa di quanti hanno dovuto fare la scelta acuminata di chi nutrire o far morire è un dolore esistenziale incurabile. Un orrore che non trova pace neppure nei pochi memoriali pubblici sul tema. Così la fame, disumana arma di guerra, stratagemma antico di ogni progetto coloniale, tattica bellica per controllare e umiliare la dignità di popolazioni disarmate, è la tempesta perfetta. La forma “intrinsecamente genocidaria”, secondo esperti di diritto internazionale, e abulia che oggi uccide anche noi, osservatori arroganti e insipienti, la nostra falsa coscienza, le nostre ipocrisie sui diritti umani, le nostre vuote pretese di civiltà
Fonte: Nicoletta Dentico | Avvenire.it