Giobbe. Romanzo di un uomo semplice di Joseph Roth è la parabola di Mendel Singer, novello Giobbe novecentesco, si analizza l’enigma della sofferenza dell’innocente e l’impotenza del diritto davanti all’assurdo, al male e al silenzio del divino. Il testo diventa figura tragica e profetica della crisi del moderno, del tramonto delle certezze religiose e giuridiche, là dove né il diritto umano né la Legge divina sembrano più garantire salvezza o senso. Giobbe è l’innocente che grida: e la sua voce resta sospesa nel vuoto, come interrogazione irriducibile per ogni filosofia della giustizia.
Giobbe. Romanzo di un uomo semplice, pubblicato da Joseph Roth nel 1930, è molto più che il racconto di una vita. È una parabola, una figura tragica e silenziosa del destino umano nell’età della secolarizzazione. Mendel Singer, un ebreo mite e devoto, insegnante di Torah in un villaggio dell’Impero zarista, incarna sin dalle prime pagine l’archetipo del “giusto”: semplice nei gesti, inflessibile nella fede, umile nel ruolo. Tuttavia, come il Giobbe biblico, viene travolto da una serie di disgrazie che sembrano smentire ogni principio di giustizia. La nascita di un figlio epilettico — segno iniziale di una maledizione che si dilaterà nel tempo —, l’emigrazione forzata in America, la guerra, la perdita della patria, la morte dei figli, la pazzia della moglie: tutto concorre a distruggere il suo mondo ordinato.
La figura di Mendel diventa allora emblema del crollo di ogni fiducia in un ordine giuridico-divino che renda conto del dolore. Egli è l’innocente che patisce senza colpa, il devoto abbandonato dal suo Dio. E tuttavia, a differenza dell’eroe tragico greco, Mendel non è lacerato dall’hybris, né cerca la ribellione prometeica. La sua è una resistenza muta, una lunga fedeltà infranta che però non si trasforma in vendetta. Solo alla fine, inatteso, giunge un evento che pare riconciliarlo con la vita: il ritorno del figlio perduto, guarito. Ma non vi è trionfo: vi è piuttosto l’irruzione del paradosso, della grazia immotivata.
In questo senso, Giobbe non è solo un romanzo sulla sofferenza individuale: è una meditazione sulla frattura tra giustizia e vita, tra Legge e destino. Mendel Singer è il Giobbe del XX secolo, figura profetica di un’umanità che ha smarrito il senso dell’ordine, ma non ha cessato di interrogare il cielo.
L’enigma dell’innocente e l’abisso del diritto
Dov’era il diritto? Dov’era la giustizia? Il grido di Giobbe attraversa i secoli e si incarna, fragile e devastante, nel corpo e nella voce spezzata di Mendel Singer. Ma in quell’urlo non risuona più alcuna invocazione al Dio dell’Alleanza. Nell’epoca della secolarizzazione — epoca della morte di Dio, ma anche della scomparsa del fondamento —, il grido non si leva più verso il cielo: si infrange nel vuoto, nella muta indifferenza dell’orizzonte. È un grido senza destinatario, un’invocazione che si consuma nell’eco.
Mendel, come Giobbe, è l’innocente che patisce. Ma è proprio la sua innocenza — irriducibile, dimessa, quasi rassegnata — a rendere scandalosa la sua sofferenza. Nessun ordine può legittimare l’ingiustizia che colpisce chi non ha colpa. Qui la teodicea si frantuma: non si può più giustificare Dio, non vi è più alcun tribunale che possa salvare la trascendenza dall’accusa dell’assurdo. E con essa, con la teodicea, si spezza anche ogni pretesa del diritto — inteso come ragione ordinante — di garantire un’equivalenza tra colpa e pena, tra azione e conseguenza, tra norma e realtà.
Il diritto, come la teologia, si mostra impotente. È questa l’epoca in cui la Legge — non più mosaica, non più divina, e nemmeno più razionale — si fa muta. Le tavole sono spezzate. E il dolore, non potendo più essere né rappresentato né giudicato, si fa opaco, muto anch’esso, radicalmente irrappresentabile. Non è più narrabile entro un ordine logico o salvifico: eccede, deborda, scardina ogni schema.
La sofferenza dell’innocente diventa allora la prova ultima dell’insufficienza di ogni ordinamento — giuridico, etico, metafisico. E Giobbe, nelle vesti moderne di Mendel Singer, non è più colui che dialoga con Dio, ma colui che sopravvive al silenzio di Dio, alla catastrofe della Legge, al fallimento del diritto. È testimone, non di una verità, ma dell’abisso in cui ogni verità, se non vuole tradirsi, deve tremare.
La crisi della Legge e l’impossibilità del giudizio
In Giobbe, la Legge non salva. Essa ordina, ammonisce, impone: è prescrizione senza redenzione. Non consola, non soccorre. È legge che non si fa carne, che non abita tra gli uomini. Mendel Singer, scrupoloso osservante, si conforma a essa con fedeltà semplice e disarmata: insegna la Torah, celebra i riti, si abbandona a una religiosità arcaica e fiduciosa. Ma proprio questa fedeltà non lo preserva, non lo protegge. Viene colpito nella carne, nei figli, nella moglie, nella patria. La Legge, da promessa di ordine, si rivela potenza cieca, vuota di garanzia.
In ciò, Mendel è figura piena del moderno: dell’uomo che assiste, impotente, alla dissoluzione del nesso simbolico tra Legge e mondo. Non vi è più alcun fondamento trascendente che assicuri l’equilibrio fra dovere e ricompensa, fra trasgressione e punizione. La giustizia si ritrae, e l’ordinamento — sia esso giuridico o divino — appare come un relitto, una forma senza forza.
Quando la pena non discende più dalla colpa, e la colpa non produce più pena, si spezza il principio stesso del diritto: il giudizio. Iudicium — il discrimine, il rendere conto, il misurare — diventa impossibile. Come giudicare, infatti, quando l’innocente cade e il colpevole prospera? Come invocare giustizia, se essa non solo non accade, ma non può più nemmeno essere pensata senza contraddirsi?
Mendel, come Giobbe, non invoca la vendetta: invoca ragione, ovvero una parola che spieghi, che giustifichi, che salvi. Ma questa parola non giunge. Non perché Dio sia assente, ma perché la Legge stessa è divenuta inintellegibile, priva di logos. È questa l’esperienza radicale del male innocente: non la collera, ma la disfatta del senso. Mendel è, allora, l’uomo senza patto, il giusto per il quale la Legge ha smesso di dire la verità del mondo.
La voce che interroga il nulla
La grandezza di Mendel Singer non sta nell’eroismo né nella sapienza, ma nella sua ostinata fedeltà all’interrogazione. Di fronte all’assurdo, Mendel non tace. Non si rifugia né nel nichilismo né nel dogma. Non comprende, ma continua a chiedere. È “giusto” non perché impeccabile — la sua umanità è debole, fragile, intrisa di paura —, ma perché non si rassegna. La sua domanda, che echeggia quella di Giobbe — “Perché?”, “Perché a me?”, “Perché il male?” —, resta sospesa nel vuoto. Ma proprio per questo diviene profetica: perché non si lascia chiudere in una spiegazione, perché mantiene aperta la ferita del senso.
Nel tempo della fine dei fondamenti, della dissoluzione dei grandi sistemi normativi e religiosi, Mendel incarna la figura tragica di colui che non smette di interrogare. La sua è un’etica della resistenza all’assurdo. E questa resistenza non è un atto morale, ma un gesto radicalmente giuridico e filosofico. Perché nel suo interrogare — che cosa è giusto? che cosa è colpa? che cosa merita redenzione? — egli espone la nudità del diritto: la sua tensione permanente verso una giustizia che eccede ogni forma, ogni codice, ogni garanzia.
Il diritto, nella sua essenza più profonda, è infatti desiderio di giustizia — non possesso. È apertura all’incommensurabile, non amministrazione dell’uguale. In questo senso, Giobbe è un romanzo filosofico e giuridico: perché non si limita a narrare una vicenda di dolore, ma pone il problema del giudicare, dello stabilire la colpa, del concepire la redenzione. E lo fa senza offrire alcuna consolazione, alcuna risposta sistematica. Lo fa, anzi, mettendo a nudo l’enigma: mostrando che il fondamento del giudizio non può essere garantito da nessuna istanza superiore, ma solo mantenuto vivo nell’atto stesso del domandare.
Mendel è così l’uomo che tiene aperta la domanda, che custodisce il fuoco dell’inquietudine. È testimone di un’epoca in cui non è più possibile credere alla coincidenza tra diritto e giustizia, ma in cui proprio per questo è necessario continuare a interrogarla — quella giustizia perduta, assente, differita — come si interroga un Dio che tace.
Grazia e paradosso: oltre la giustizia
Il finale del romanzo disorienta, spiazza, interrompe ogni attesa razionale. Mendel, ridotto a rovine — interiori, familiari, spirituali —, riceve ciò che non poteva più attendere: la vita del figlio, che credeva perduto, e con essa una forma di pacificazione. Ma non è consolazione, non è risarcimento. È grazia. Un evento che non risponde alla logica della reciprocità né alla struttura della giustizia retributiva. Non è ciò che si “doveva” a Mendel: egli non lo “merita”, così come non aveva meritato il dolore che lo aveva travolto. È l’irruzione dell’incommensurabile, dell’ingiustificabile. E proprio in questo consiste il suo carattere scandaloso.
Joseph Roth, con straordinaria finezza teologica e giuridica, ci conduce oltre la soglia del giusnaturalismo e della teodicea. Non vi è più alcun nesso necessario tra actum e praemium, tra colpa e pena, tra fedeltà e salvezza. La redenzione che Mendel riceve non conferma un ordine, ma lo disarticola. È l’evento gratuito che sfida ogni sistema giuridico, perché non si lascia prevedere, misurare, né tantomeno normare.
In questo senso, Giobbe. Romanzo di un uomo semplice è anche una radicale critica della razionalità giuridica moderna: quella che pretende di fondarsi sulla simmetria, sull’equilibrio, sulla proporzione tra azione e reazione, tra diritto e dovere. Ma il romanzo ci dice che vi sono esperienze — quelle del dolore innocente, della perdita ingiustificabile, del male che colpisce senza ragione — che dissolvono queste architetture. E ci dice, con altrettanta forza, che la “salvezza” non è mai opera della Legge, ma semmai suo oltrepassamento. Non negazione, ma sospensione. Un non-ancora che resta come possibilità, come dono immotivato, che pure non cancella l’abisso attraversato.
Il diritto, qui, si arresta. Il principio di responsabilità — su cui si regge ogni ordinamento — non sa più rispondere. Il “diritto dell’innocente” — quello che urla ma non trova ascolto, che patisce ma non riceve riconoscimento — resta così come domanda aperta, come kairòs continuamente differito. La giustizia, in quanto attesa di senso, si trasforma in speranza non garantita. E Mendel — come Giobbe prima di lui — non riceve giustizia, ma grazia: una luce che non cancella le tenebre, ma le attraversa senza spegnerle.
Conclusione: La domanda che non si può archiviare
Nel personaggio di Giobbe-Mendel si condensa, come in una figura archetipica, tutta la tragedia dell’uomo moderno: sradicato dalla terra della fede, abbandonato dalle promesse della Legge, disilluso dalle illusioni della Ragione. L’alleanza antica tra uomo e divinità si è spezzata, la Legge — che un tempo ordinava il mondo e garantiva un senso — si è fatta astratta, procedurale, incapace di rispondere al dolore concreto dell’esistenza. La razionalità giuridica moderna, che pretende di fondarsi su coerenza sistemica e prevedibilità, si rivela impotente di fronte allo scandalo della sofferenza innocente. Non resta che il vuoto, ma un vuoto attraversato da un grido.
Quel grido — la domanda di Mendel, che è la domanda di Giobbe — non si estingue, nonostante tutto. È voce che non si rassegna, che non si lascia assorbire né neutralizzare da alcuna risposta consolatoria o ideologica. In essa si custodisce un resto inassimilabile, ciò che la filosofia e il diritto non riescono a dominare. Eppure proprio quel resto è il cuore pulsante dell’umano: la domanda di giustizia, nonostante l’ingiustizia; la domanda di senso, nonostante l’assurdo.
Giobbe non è solo un romanzo sulla sofferenza: è un trattato sull’impossibilità di archiviare l’interrogazione giuridica e teologica. È il rifiuto radicale di ogni nichilismo compiaciuto, di ogni cinismo del “così va il mondo”. È la testimonianza, tragica ma tenace, che anche nel silenzio di Dio, anche nel fallimento della Legge, resta qualcosa che interpella, che chiama a rispondere.
Per questo Giobbe parla, oggi più che mai, alla filosofia del diritto, alla coscienza collettiva, all’etica pubblica. Ci chiede: come fondare il giudizio quando tutto vacilla? Come restare umani quando l’ordine simbolico si frantuma? Giobbe-Mendel, figura del giusto sconfitto, è il volto della nostra epoca: un’epoca che non può più credere ingenuamente, ma nemmeno tacere. È l’icona di un’umanità che continua a domandare giustizia nonostante l’assenza, a invocare senso dove non c’è risposta, a interrogare anche quando sa che nessuna risposta sarà definitiva.
Fonte: Daniele Onori | CentroStudiLivatino.com
Bibliografia essenziale
Joseph Roth, Giobbe. Storia di un uomo semplice, tradotto da Barbara Trazzi, Adelphi, Milano, 1997.
Paolo Morelli, “Giobbe di Joseph Roth: Il paradosso della grazia”, in Rivista di Studi Teologici, 2003.
Alfred Kittner, La teoria della giustizia di Roth: La teodicea e la ragione giuridica, Mimesis, Milano, 2008.
David L. Clark, Joseph Roth: Giobbe e la critica della ragione, Einaudi, Torino, 1999.
Franco Ricci, Giobbe e la domanda di giustizia in Joseph Roth, Edizioni di Filosofia e Teologia, Roma, 2005.