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La diplomazia, oggi

Praticata dall’era delle caverne come strumento di coabitazione se non sempre di collaborazione, ci si chiede oggi a cosa serva la diplomazia, compressa com’è dal ritorno della politica di potenza. Eppure, l’esperienza dimostra che la soluzione degli interminabili conflitti in corso, in Ucraina, in Medioriente, in Africa, non può essere affidata alle sole parti in causa, esigendo invece il concorso dell’intera comunità internazionale.

Strumento indispensabile al duplice scopo di diffondere le proprie ragioni e sondare quelle altrui, trasmettere e raccogliere elementi d’informazione e valutazione sulle rispettive proposte e intenzioni, la diplomazia ha sempre agito negli interstizi dei rapporti di forza. Come forza di persuasione, nell’inscindibile combinazione fra deterrenza militare e dissuasione politica. Kennan, che della diplomazia americana post-bellica è stato dapprima l’ispiratore e poi il fustigatore, diceva che «non avete idea di quanto il garbo e la piacevolezza della diplomazia possa avvalersi, dietro le quinte, della discreta presenza di una forza armata».

Le molteplici interconnessioni prodotte dalla globalizzazione delle comunicazioni e della finanza hanno oggi restaurato nel sistema internazionale le primordiali condizioni di anarchia, che ostacolano la reciproca comprensione e conseguentemente la gestione dell’insieme. Né si può ritenere che la tanto esaltata intelligenza artificiale possa oggi fornirci il bandolo della matassa, rischiando invece di ridurci in condizioni di apprendisti stregoni.

Nella situazione in cui ci troviamo di “guerre a pezzi”, ibride, non più risolutive ma di logoramento della stessa volontà politica, non siamo peraltro più all’epoca di Clausewitz; né di Sun Tzu. La diplomazia può comunque riappropriarsi della propria ragion d’essere, purché le circostanze le concedano il necessario spazio di manovra. Chi lamenta la sua assenza ne riconosce implicitamente la persistente utilità. Come l’aria, se ne avverte tanto più la necessità quando viene a mancare.

Travolta per due volte dai devastanti conflitti del secolo scorso, emarginata dal ritorno del confronto fra contrapposte ideologie, la diplomazia si è ogni volta riscattata. La sua evidente scarsa incisività nei conflitti in corso, è compensata dalla disponibilità dei suoi stessi esponenti meno assertivi, quale la Santa Sede. La cui diplomazia, portatrice di valori universali di un ben diverso ordine, è consapevole di camminare sulle uova. Cruciale fu pur tuttavia la sua mediazione, per ben due volte, fra Stati Uniti e Cuba, nonché il suo contributo al negoziato per la “dimensione umana” della CSCE (OSCE). Che della diplomazia fu l’esito più vistoso (anche se purtroppo non duraturo).

In un mondo diventato “piatto”, anche per la crescita esponenziale di interlocutori non statuali, di opinioni pubbliche alimentate dalle piattaforme digitali, persino di movimenti dichiaratamente sovversivi se non apertamente terroristici, la diplomazia va pertanto modificando il proprio modus operandi. Nel recupero delle ragioni di quell’internazionalismo liberale che da un secolo, da Versailles, come un serpente di mare ostinatamente riemerge. Nella ricorrente affermazione delle ragioni del multilateralismo, che dello sbandierato multipolarismo è all’estremo opposto. Da bilaterale, transattiva, a somma zero, è diventata appunto multilaterale, essenzialmente normativa, a somma positiva.

Nell’intento di determinare il comune denominatore che le circostanze, oggi più che mai, richiedono, la diplomazia si va pertanto facendo assertiva, propulsiva, generatrice di comportamenti convergenti. Affidando a tal fine agli stessi suoi funzionari non più compiti meramente esecutivi delle istruzioni ricevute, ma coinvolgendoli anche in una “diplomazia pubblica”, da affiancare alle espressioni governative delle ragioni politiche e modalità operative adottate.

Le regole della convivenza umana, quel “diritto delle genti” tracciato dai tempi di Agostino, sviluppato da Tommaso d’Aquino, Grozio, fino a Kant, Lincoln, Gandhi, Niebuhr, al nostro Sturzo, da tradurre in norme di comportamento condivise, sia pure diversamente praticate, appaiono più che mai indispensabili. Indicate dalla Carta delle Nazioni Unite, subito disattese con l’avvento della Guerra fredda, sono nuovamente contestate da alcune autoproclamatesi superpotenze. Un “conflitto di civiltà” ne impedirebbe l’applicazione, contraddetto invece dalla crescente condivisione delle aspirazioni dell’umanità, indiscutibilmente accumunate dalle libertà fondamentali dalla paura e dal bisogno, se non sempre da quelle, che possono essere relativizzate, di espressione e di credo.

Dopo la caduta del Muro, era stata ipotizzata la «fine della Storia», di quella vecchia cioè, con il ritorno ad una convergenza di propositi. Controverso si è invece rivelato il “diritto di intervento” (invocato come dovere dal fondatore di Medici senza frontiere, Bernard Kouchner) nei casi di palesi crimini contro l’umanità. Un’esigenza che si è tradotta nell’attribuzione agli Stati di una “responsabilità di proteggere”; non soltanto la propria popolazione ma la stessa sicurezza e stabilità della regione circostante. Nella riaffermazione delle ragioni del diritto internazionale, di quella “imposizione della pace”, che l’Organizzazione delle Nazioni Unite, erede della Società delle Nazioni, si propose di affermare.

Lo scetticismo dilagante sulla funzionalità dell’ONU, della stessa Unione europea, dimostra la loro indispensabilità. Il sistema di organizzazioni internazionali che si vorrebbe riformato andrebbe semplicemente rivitalizzato, rimesso in funzione. In primis, quel Consiglio di Sicurezza atrofizzatosi per inedia. Giacché, come si sa, il diritto internazionale è consuetudinario, basato sul consenso e la convergenza dei comportamenti, piuttosto che, come pretendeva Kelsen, positivo, strutturato gerarchicamente. D’altronde, pacta sunt servanda soltanto finché rebus sic stantibus. È quindi in modo aggregativo, dal basso piuttosto che dall’alto, che potrà essere rigenerato. All’attuale Segretario Generale delle Nazioni Unite si deve, nel 2021, il tentativo di stabilire una Common Agenda per «un multilateralismo inclusivo, interconnesso ed efficace», tradottosi nel 2024 in un “Patto per il futuro”.

Indispensabile è dissipare l’opinione diffusa che l’Occidente euro-americano intenda imporre una propria egemonia. Mentre si è costantemente adoperato per recuperare, nel loro stesso interesse, una Russia declinante e una Cina emergente alle ragioni del sistema internazionale democraticamente partecipativo nel quale si identifica. Nel valorizzare persino i principi che accomunano la Cristianità e il mondo asiatico (Deus est natura ci ricordava d’altronde l’ebreo apostata Spinoza), nell’intento di estrarre quello arabo dalle sue esclusive convinzioni.

Né si trascuri che, alla fine del devastante secondo conflitto mondiale, Reinhold Niebuhr così come Sturzo, dalle due sponde dell’Atlantico, si fecero promotori di un “realismo etico”, consistente nella combinazione delle esigenze a breve, imposte dalle circostanze, con il mantenimento di una visione ideale a più lunga scadenza. Nel seguire contemporaneamente «virtute e canoscenza», come ci esortava Dante; nella distinzione weberiana, cioè, fra etica delle convinzioni e delle responsabilità. Che il relativismo imperante pare aver oggi cancellato.

L’Occidente, l’abbiamo appreso, non fa più la guerra poiché l’America si ritrae e l’Unione europea l’ha abiurata (Carl Sandburg aveva profetizzato che «un giorno faranno la guerra, ma nessuno ci andrà più»). Ma non può rinunciare a sostenere l’ordinamento che ha promosso e presidiato. Non è quindi nell’ampliare le coalizioni militari, quanto piuttosto nel ricorso alla diplomazia che deve, appunto, continuare a far affidamento, per aggregare gli Stati animati dalle medesime intenzioni, nell’Asia sud-orientale, attorno al Pacifico, in America latina, (in Africa?).

Che la politica estera sia diventata ormai la prerogativa dei capi di governo piuttosto che dei Ministeri degli Esteri, è cosa palese. Ma non può esercitarsi convenientemente se non sulla base degli ingredienti forniti dalla rete diplomatica. Che, dopo l’opportuna ricognizione, le predisponga il terreno sul quale esporsi e le modalità per farlo. L’homo diplomaticus sopravvive quindi. In attesa della chiamata di un’umanità che sappia recuperare l’uso della ragione.

L’Italia, infine, che si vanta di aver «ripudiato la guerra», dovrebbe dotarsi di una diplomazia efficiente. Istruita in proposito dalle proprie vicende storiche, che ne fecero lo strumento della sopravvivenza delle città-stato e infine, con Cavour, della stessa unità nazionale, è ancora alla diplomazia che, nell’immediato dopoguerra, fu affidato il compito di rimettere sui binari la reputazione della nazione. Un compito che, nell’attuale momento di precaria evoluzione dei rapporti internazionali, dovrebbe esserle restituito. E invece…

Fonte: Guido Lenzi* | Lisander.com

*Ambasciatore

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