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La crisi dell’Università e il futuro della democrazia liberale

La discussione sull’Università innescata dall’articolo di Lorenzo Ornaghi si è incentrata intorno alla questione, posta dallo stesso Ornaghi in cima al suo intervento, della mutazione dell’istruzione superiore. Mutazione per allontanamento da un tipo ideale e mutazione per trasformazione dei soggetti in gioco, studenti, professori, fino alle cosiddette università telematiche. Le periodizzazioni sono largamente iscritte in questo tipo di approccio: il Sessantotto, naturalmente (un po’ per tutto, ma soprattutto per quel grande feticcio che è l’avvento della società di massa, che con più precisione andrebbe indicata come società degli individui); e poi gli anni Duemila (per la legge Gelmini, e più in generale per la famigerata svolta neo-liberale), ma non (stranamente) la legge Ruberti, l’autonomia universitaria, la nascita di un ministero ad hoc che riunificava sotto di sé la direzione dell’Università e degli enti pubblici di ricerca. Per i professori universitari, l’autonomia è per lo più presupposta, ma mai veramente storicizzata.

Ne viene fuori il quadro di una istituzione in crisi, sebbene sia più difficile dire dove questa crisi propriamente risieda e in che modo si manifesti – nella frammentazione disciplinare, nei criteri di accesso alla carriera, nelle forme della comunicazione scientifica. Difficile è la domanda che riguarda la funzione generale dell’Università e il posto che questa occupa in società economicamente avanzate e governate in forma liberale. Difficile, a causa della grande frattura che si è prodotta nei sistemi della formazione occidentale nel corso del Ventesimo secolo: il progressivo tramonto del­l’ideale dell’uomo colto che attraverso l’educazione metteva in mostra le sue qualificazioni personali, di natura religiosa o estetica. Oggi l’educazione continua a essere un contrassegno dello status culturale elevato (l’arroganza della laurea di cui parlava Rustichini su queste stesse pagine all’inizio di ottobre), ma conveniamo che lo status sia definito da abilità nella sfera occupazionale. Che ci piaccia o meno, la domanda di istruzione è regolata da scelte che hanno quasi esclusivamente a che fare con gli orientamenti privatistico-carrieristici degli individui. Questi individui, tuttavia, devono ricevere una qualche forma di educazione politica, coerente con i modi della nostra convivenza democratica. Chi provvede e come alla scorta dei valori di cui nessuna società può fare a meno?

L’Università perciò risulta come in bilico tra esigenze diverse: assicurare una direzione degli orientamenti ideologici nella società (almeno il suo tentativo) e l’efficace integrazione dei singoli nel mercato del lavoro. Grosso modo, la linea divisoria che passa tra Humanities e discipline STEM. L’università che prepara il cittadino democratico e l’università che forma il professionista. Di qui anche la pressione crescente dei curricula ispirati alla triade Diversity, Equality, Inclusion (ancora Rustichini), che tuttavia finiscono per enfatizzare proprio la frattura che vogliono colmare: la democrazia per ciò stesso smette di essere un habitus del cittadino democratico e diventa un discorso sul dovere di essere democratici, con tutti i rischi di rigetto che qualsiasi forma di pedagogia esplicita porta con sé. Tanto più in società che per la prima volta dalla fine della Seconda guerra mondiale devono fare i conti con composizioni etnico-religiose della loro popolazione estremamente complesse e potenzialmente conflittuali.

Nonostante tutto ciò, quando parliamo di Università parliamo quasi sempre di come funziona invece di quello che dovrebbe giustificarne il funzionamento. Eppure, qualcosa è successo e di molto rilevante in questo ultimo anno che dovrebbe portarci a guardare in una direzione diversa. All’Università come al centro spirituale (non meramente ideologico) di una civiltà; insomma, all’insieme dei valori morali e intellettuali che definisce un’epoca.

È successo che in alcuni dei luoghi decisivi per l’elaborazione delle basi intellettuali della società occidentale sia andato in scena il più clamoroso processo ai presupposti etici della democrazia nata dalla sconfitta del nazifascismo. Il movimento pro-palestinese sviluppatosi dopo il pogrom del 7 ottobre 2023, con le sue vaste connivenze ideologiche internazionali, opera sulla base di una logica che è sostanzialmente affine alla teorica «gender trouble» di Judith Butler, per la quale il sesso non è un fatto biologico ma una creazione del linguaggio. Le parole stanno anche alla base delle mosse strategiche di questo movimento, due in particolare: «genocidio», per parlare di Gaza, e «rivolta»,  per significare il rapporto di sostituzione (ancora una volta la logica del segno) tra i Palestinesi e il cosiddetto Sud del mondo. I palestinesi sarebbero secondo questo schema teorico le vittime di un genocidio e al tempo stesso i rappresentanti di un Sud globale in rivolta contro il Nord oppressore.

Non solo Auschwitz viene soppiantata da Gaza, ma nell’aggressione agli ebrei si realizza il massimo di intensità etica della lotta dei popoli coloniali contro l’oppressione del Nord imperialista. Il «socialismo degli stupidi» (Michele Battini) continua così a dispiegare la propria logica: dopo che la Dichiarazione dei diritti del­l’uomo e del cittadino aveva avviato l’emancipazione degli ebrei d’Europa, si produce una cesura nel tradizionale antigiudaismo che trasforma la vecchia accusa di usura in anticapitalismo. Oggi questa stessa accusa viene riscritta nei termini propri degli studi postcoloniali.

A essere in gioco sono le basi stesse di legittimità della democrazia liberale. È significativo che questa operazione sia stata resa possibile dal­l’ideologia che domina attualmente le università occidentali e che mette la cosiddetta rivoluzione dei diritti al servizio di una critica radicale della cultura sulla base della quale quella rivoluzione è pensabile. Con molta nonchalance e senza minimamente avvertire la contraddizione, i nuovi individui istituiti da una società compiutamente secolarizzata possono tranquillamente battersi per la causa Queer e schierarsi per un movimento politico-religioso, Hamas, che a Gaza mette a morte gli omosessuali.

Tutto questo non solo è accaduto nell’Università occidentali, ma con gli strumenti intellettuali messi a disposizione dalla ricerca filosofica e più in generale dalla teoria accademica sviluppata in queste stesse Università, nei punti più alti della vita spirituale dell’Occidente.

C’è, dunque, un’evidente sproporzione tra il modo in cui discutiamo del­l’Università e le dimensioni effettive della sua crisi. Il punto è stabilire se c’è un nesso tra le due cose ed eventualmente in che termini si pone la loro relazione. Sarebbe azzardato sostenere che l’una è causa dell’altra, che la mediocrità corporativa del punto di vista accademico genera le cose di cui si è detto. Ma è certo che l’Università continua a essere, nelle sue punte più avanzate, un luogo di idee che influiscono sull’andamento del mondo. È proprio questo aspetto a essere sistematicamente trascurato nella discussione sull’Università. All’Università si producono idee, ma quando si parla di Università quasi mai si discutono le idee che essa mette in circolazione. Sembra che l’Università esista esclusivamente nella sua dimensione di azienda burocratizzata di cui analizzare e, se il caso, correggere il funzionamento. Per il resto, non ci sono altri argomenti degni di discussione.

Non che questo non sia in certi casi necessario. Nessuna istituzione può fare a meno di una periodica verifica dei suoi meccanismi regolativi. Ma la questione universitaria oggi pone innanzitutto un problema relativo ai modi della nostra autocomprensione. Si tratta della fiducia riposta nei fondamenti del nostro vivere associato, dei valori che legittimano il vincolo politico all’interno del quale siamo stretti. Non si può intervenire sull’Università senza avere un’idea chiara di ciò a cui serve l’Università. Ma questo significa che ogni scelta fatta a proposito dell’istruzione superiore rivela essenzialmente i pregiudizi condivisi intorno ai suoi compiti generali, da decenni ormai formulati in maniera pressoché esclusiva in termini di sviluppo e promozione del capitale umano. Se le politiche universitarie hanno un limite, a me pare che questo limite risieda proprio nella reiterazione di uno schema in cui le finalità dell’istruzione superiore sono già assegnate prima di ogni verifica: il benessere e la salute, le prospettive professionali e di carriera, l’agevolazione dell’apprendimento generale. Insomma, la pubblica felicità in salsa funzionalista.

E allora, se non è possibile istituire un nesso di causalità tra la crisi dell’Università e i modi della sua comprensione, è certo che spostare lo sguardo dall’Università come luogo delle idee all’Università come appa­rato al servizio dell’integrazione sociale acceca il nostro sguardo, salvo poi lasciarci sgomenti quando siamo posti a forza dinanzi allo spettacolo di una generazione di presunti beneficiari dei fini generali del sistema che non solo si mostra ben poco entusiasta nell’accoglierli e farli propri, ma si riproduce sulla base di una radicale sfiducia nei presupposti etici della democrazia liberale.

Nell’Università attuale si consuma una drammatica scissione tra la società in cui crescono i giovani e i valori che presiedono alla loro formazione. Al tempo stesso, beneficiari di tutti i vantaggi che la prosperità e lo sviluppo tecnologico sono in grado di offrire loro e profondamente convinti dell’indegnità morale dell’ordine che glieli garantisce. A me pare il modo migliore per sabotare le basi della nostra convivenza politica e civile.

Fonte: Adolfo Scotto di Luzio* | Lisander.com

*Università di Bergamo

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