Due ragazzi pieni di fatiche e il loro cambiamento durante le ore di lezione. L’intervento di un professore all’ultima assemblea degli educatori di Comunione e Liberazione
Insegno Musica in una scuola media paritaria e sono docente di strumento in un liceo musicale statale. Volevo raccontare due episodi dove si è svelata ancora più vera la frase di Giussani: «Soltanto l’amore, soltanto l’affezione partorisce una educazione… Il motivo vero della comunicazione è un’affezione».
Ad anno scolastico inoltrato, arriva in prima media una ragazza con un forte disagio psicologico. È sempre imbronciata e triste. Per mesi non dice nulla. Io e i miei colleghi ci sentiamo impotenti di fronte a tutto il dolore che traspare. Inoltre è capitata in una classe di quelle toste. Cosa possiamo fare se non ogni giorno accoglierla come l’alunna più attesa e cercare, dentro al lavoro, di volerle bene. Un mese fa, mi dice: «Prof, ho scritto una canzone». Mi invento qualcosa per mollare la classe e stare con lei e le chiedo se vuole farmela sentire. Incredibilmente canta davanti a me tutta la sua storia, il suo dolore e il suo desiderio. Non solo. Alcuni giorni dopo, vuole cantarla ai suoi compagni. Tripudio generale in aula. È stata una delle cose più commoventi di quasi vent’anni di insegnamento. Io e gli altri professori cosa abbiamo fatto per lei? Nulla, se non comunicarle, dentro le nostre materie, una passione, una affezione, una stima che non è nostra, ma che abbiamo addosso per come noi siamo stati guardati.
Mi è tornata in mente quella frase di don Giussani: «Che incontrando noi una donna o un uomo, un coetaneo o uno più piccolo, uno si senta come afferrato nel profondo, riscosso dalla sua apparente nullità, debolezza, cattiveria o confusione, e si senta come d’improvviso invitato alle nozze di un principe» (Messaggio per il pellegrinaggio Macerata-Loreto del 2003).
Secondo episodio. L’anno scorso ho “ereditato” un ragazzo marocchino che non so bene come sia finito al liceo musicale e probabilmente non lo sa nemmeno lui. Si esercita poco, spesso è impreparato e svogliato a lezione. Praticamente non ha nemmeno voglia di tirare fuori lo strumento. Un giorno, lo vedo passare in cortile in pieno inverno con la maglia del Marocco, a maniche corte! Ci sono i Mondiali e mi viene l’idea: divento tifoso del Marocco. Gli mando un messaggio prima dell’esordio. Lui si presenta la volta dopo con gli spartiti richiesti e mi dice: «Tutti mi hanno dato del deficiente per la mia maglietta, lei prof è l’unico che mi ha capito». E la cosa si ripete la partita e la lezione successiva e così via. Grazie a Dio il Marocco arriva in semifinale e il mio alunno a dicembre suona veramente bene, si gusta le conquiste fatte e mi dice: «Ora capisco la frase di quel suo amico che mi aveva fatto scrivere all’inizio dell’anno sul quaderno: “Aspettatevi non un miracolo, ma un cammino”. È proprio così». Con lui continua ad essere dura, soprattutto l’ultima ora del mercoledì, dalle 16 alle 17. A volte per sostenerlo occorrerebbe una gru, eppure, anche dopo la lezione più faticosa, non scappa mai via: mi attende ascoltandomi suonare, mi accompagna fino all’uscita di scuola raccontandomi di sé, del Ramadan, del bisogno di credere in qualcosa, fino alla mia libertà di invitarlo al Triduo di Gioventù Studentesca.
I frutti più potenti che vedo nel mio lavoro vengono dalla comunicazione di me, cioè dalla comunicazione della grazia che ho ricevuto e che mi rende inaspettatamente certo di tutto, paziente, creativo, disponibile a valorizzare, «perché qualcuno si possa innamorare di ciò che ha innamorato noi» come scrisse Andrea Aziani.
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