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Cercasi senso del lavoro disperatamente nell’era del burnout

Viaggio nel generoso e inevitabilmente incompleto tentativo da parte delle aziende di fornire ai propri dipendenti e manager sotto stress ragioni adeguate per rinnovare il proprio impegno

Nel caos moderno del mondo del lavoro, di fronte all’ingrigimento del mood aziendale dovuto alla fragilità dei mercati in continua evoluzione, minacciati dalla instabilità internazionale e con l’aggravante dei lasciti del Covid-19 e l’avvento dell’intelligenza artificiale generativa che porta potenziali benefici ma anche tante minacce, non solo aumenta la pressante necessità di evitare il fallimento per le aziende, ma è anche imperativo eccellere in termini di prestazioni e carriera per i lavoratori. Di conseguenza il rischio che dipendenti e manager siano colpiti da ansia e stress fino al burnout è molto elevato: il 70 per cento di loro sta attualmente affrontando queste sfide, con una percentuale significativa (il 13 per cento) che afferma di averne sperimentato gli effetti in modo molto forte. Questi dati emergono da uno studio recente condotto da GoodHabitz, una piattaforma internazionale per la formazione aziendale.

Partire dal “perché”

Proprio in risposta a questa emergenza, nel suo recente libro Da grande, Giulio Xhaet narra le vicende di manager consolidati, ma afflitti da stanchezza e insoddisfazione, i quali, nel cercare la propria autentica “vocazione”, hanno improvvisamente deciso di abbandonare tutto per intraprendere nuove avventure professionali in settori radicalmente diversi. Sebbene queste storie siano estremamente affascinanti, potrebbero non essere adatte a tutti. E cosa accade a coloro che non possono più permettersi di rischiare di abbandonare il proprio lavoro?

Non sorprende dunque che, nelle medie e grandi aziende, siano nati tanti tentativi per far rinascere il lavoro e i lavoratori. Sono grandi investimenti di tempo e denaro nella formazione e nelle attività volte alla ricerca di una sostenibilità aziendale ideale per tornare a ciò che conta davvero: si affrontano con grande attenzione temi come il “purpose aziendale”, ovvero lo scopo, la vocazione dell’azienda che va oltre la mera generazione di guadagni.

Simon Sinek, uno degli autori più popolari rispetto a queste tematiche, in Start with Why: How Great Leaders Inspire Everyone to Take Action sottolinea l’importanza di comprendere il “perché” come punto di partenza fondamentale per il successo di un’azienda o di un leader: il “perché” non è semplicemente il profitto o il risultato finale, ma piuttosto la ragione profonda e ispiratrice che guida le azioni e la missione di un’organizzazione. Ma riscoprire il senso dell’azienda è sufficiente o serve prima riscoprire il senso del lavoro dell’uomo? Per quale motivo profondo ha senso spendersi e faticare ogni giorno nel nostro lavoro?

Un capo al vostro servizio

In questo contesto, è quindi imperativo rivedere anche il ruolo dei manager: i leader devono fungere da ispirazione per tutti i collaboratori, delineando il vero scopo dell’azienda. La trasformazione mira a creare aziende meno gerarchiche attraverso l’adozione di approcci “agile” (da non confondersi con lo smart working).

Tali metodologie propongono strutture organizzative più piatte, democratiche e veloci, promuovendo la meritocrazia e una cultura dell’errore che permette di sperimentare e sbagliare senza essere giudicati come falliti. Si incoraggiano nuovi modelli di leadership, come il “servant leader”, che pone al centro dell’organizzazione il concetto di servizio agli altri: invece di focalizzarsi esclusivamente sul proprio potere o autorità, un leader servitore si impegna a servire gli altri, ponendo le necessità del team o dell’organizzazione al primo posto.

Non è forse il tipo di capo ideale che tutti vorremmo? Ma ancora, un manager, un uomo, può davvero dedicare la sua vita al servizio degli altri senza avere un ideale profondo che lo sostenga nel suo stesso lavoro e in questo sforzo di servizio?

Coaching e mentorship

La formazione spesso è considerata la soluzione a tutto, ma anche ampliando le nostre competenze, sia soft che hard, attraverso corsi e master, è difficile affrontare da soli il peso dei cambiamenti, considerando la nostra fragile natura umana. Ecco che è riemerso quanto sia utile ricevere un supporto esterno da qualcuno che possa guidarci nel cambiamento, e per questo motivo attualmente si suggeriscono percorsi di “coaching”: dialoghi strutturati con un coach focalizzati sull’azione, mirati a sviluppare competenze, migliorare le performance e favorire la crescita personale. Quando possibile, può risultare preziosa anche la “mentorship”, in cui si instaura una conversazione con un mentore, spesso un dirigente di alto livello della stessa azienda, che offre consigli basati sulla propria esperienza passata al “mentee”.

È quindi riconosciuto il fatto che si debba chiedere aiuto, ma di fronte alla vertigine della profondità della vita può bastare per un uomo l’aiuto di un altro uomo?

Non solo dati ma anche emozioni

L’uomo di fronte a questi scenari complessi e mutevoli è un vulcano di stati d’animo che vanno in un qualche modo gestiti negli ambiti lavorativi perché non diventino un problema, ed è qui che le riflessioni sull’“intelligenza emotiva” stanno guadagnando crescente popolarità. Il concetto di intelligenza emotiva, reso celebre da Daniel Goleman nel suo acclamato libro Emotional Intelligence: Why It Can Matter More Than IQ, ha avuto un impatto significativo nel contesto lavorativo. Goleman ha sottolineato l’importanza della gestione efficace delle emozioni e dei sentimenti, la consapevolezza di sé e degli altri, l’empatia e la gestione delle relazioni, contribuendo a una maggiore consapevolezza della loro rilevanza per il successo sia individuale che collettivo nel mondo del lavoro.

Si tratta di un approccio nuovo complementare all’altrettanto innovativo approccio “data driven” che presuppone la presa di decisioni basate esclusivamente su informazioni certe e quantificabili offerte dalle tecnologie digitali di oggi. I sentimenti effettivamente sono una componente importante nella esperienza di tutti i giorni, non sono da escludere perché sono l’evidenza di quanto ci interessa la nostra vita, ma sono importanti solo per raggiungere il successo e la soddisfazione? Non si lavora anche per imparare ad amare i colleghi come fossero il nostro prossimo che ci viene messo davanti e con cui condividiamo una buona parte della giornata? O invece il rapporto con loro deve essere sempre visto in funzione dell’azienda?

Testimonianze di fallimento e ripartenza

Altro trend interessante, durante i business workshop di livello internazionale, è quello di presentare testimonianze di rinascita invitando figure provenienti da settori apparentemente distanti, le quali hanno vissuto esperienze uniche, spesso caratterizzate da fallimenti seguiti da una crescita. Queste personalità sono in grado di condividere insegnamenti che possono trovare applicazione in svariati contesti lavorativi. A metà novembre, durante l’apertura di una rinomata conferenza nel panorama degli eventi di business e marketing a livello internazionale, è stata condotta un’intervista live a una giovane atleta paraolimpica, celebre per la sua storia commovente e per le sue grandi vittorie. Questa atleta ha affrontato con successo una malattia grave, ma la sua rinascita ha sorpreso e commosso il pubblico di C-level e professionisti presenti, ammirati dalla sua forza, vitalità e gioia di vivere, grazie al suo impegno straordinario nello sport e nell’ambito sociale.

Nel suo discorso, stimolato dalle domande dell’intervistatore sul palco, si è potuto riflettere su quale sia l’origine di tale resilienza di fronte alle avversità e a chi sia giusto essere grati. Certamente, l’atleta è stata sostenuta da genitori ed amici per ritornare a praticare sport, ma il suo impegno personale e la dedizione straordinaria durante gli allenamenti e le competizioni hanno cambiato radicalmente il corso della sua vita, trasformandola, così diceva, «da una grande sfigata ad una persona grandiosamente fortunata».

Verrebbe da farle i complimenti più sentiti, ma può davvero la ricetta per essere felici e avere successo sul lavoro, nonostante le avversità, risiedere solamente nello sforzo e nella dedizione personale? Nell’adrenalina e nell’endorfina prodotte dal corpo quando esaltato dallo sport, che donano sensazioni di soddisfazione? Questo pensiero può suscitare turbamento, considerando l’incostanza e la debolezza che caratterizzano tutti noi, oppure pensando alla finitezza dello sport che prima o poi cessa di poter essere praticato.

Infine, per i periodi particolarmente intensi e complessi, si è persino riscoperta l’utilità della meditazione o “mindfulness”, una pratica finalizzata a potenziare la concentrazione, ridurre lo stress e favorire il benessere generale dei dipendenti attraverso il lavoro su se stessi. In questo caso si tratta però di una meditazione non religiosa, che non ha a che fare con Dio. Quindi non una preghiera, ma una profonda riflessione su se stessi.

Una rinascita di tipo diverso

Se ci si pensa è sorprendente quanti di questi tentativi e suggerimenti prendano spunto dalla tradizione religiosa cristiana, per poi essere però depurati proprio della componente fondamentale che originariamente li contraddistingueva, cioè il rapporto con il divino che in ultima analisi sorregge e conforta l’uomo nel suo difficile lavoro.

Ma non è sempre così: su YouTube sono facilmente reperibili altre testimonianze di rinascita come quella di una ex fisioterapista neurologica, anch’essa di fama internazionale con 40 anni di esperienza, recentemente colpita dalla sindrome di Guillain-Barré. Questa malattia, rara e dannosa, ha distrutto velocemente la guaina mielinica che consente la trasmissione di impulsi nervosi. La donna è stata paralizzata per mesi, a rischio di vita, ma ha lentamente recuperato, reimparando a respirare e a muovere ogni singolo muscolo.

Nel suo video, racconta della sua esperienza di “sforzo”, ma uno sforzo diverso, più naturale: lo sforzo della propria libertà nel riconoscere e accettare l’appartenenza a Dio, che agisce misteriosamente e dolorosamente nella sua vita. Grazie all’amicizia profonda con alcune persone che l’avevano guidata in un percorso di fede era sorta l’intuizione di comprendere che ciò che le stava accadendo non era una sfortuna, ma un elemento essenziale del suo scopo, della sua vocazione e della sua vita. Questo dava senso alla sua vita in tutti i suoi fattori, compreso quello dei molti anni spesi per il lavoro proprio aiutando persone in difficoltà fisiche come la sua. In modo inaspettato, ha trovato valore e pace anche nel dolore e nella lunga convalescenza, attraverso segni tangibili e persone che l’hanno sostenuta durante quel periodo difficile fino alla guarigione.

In questo caso, pur ammirati dalla storia di questa donna, non viene da farle i complimenti per la sua tenacia, ma piuttosto c’è da rimanere affascinati per come il mistero della sua fede le abbia dato questa forza! Non è forse più corrispondete ed umana questa testimonianza? La caduta e la fatica possono rappresentare non solo un’esperienza negativa, ma anche un elemento essenziale per comprendere i veri valori della vita.

Il senso del lavoro

Di certo è fondamentale recuperare la soddisfazione e la tranquillità nel lavoro, resistendo all’inevitabile stress di questi tempi frenetici e risulta ammirevole osservare gli sforzi umani e organizzativi nel trovare soluzioni pratiche da integrare nel contesto del welfare aziendale. Si tratta solo di competenze e sforzo umano? Questi tentativi possono bastare a far rinascere veramente il lavoro e il lavoratore o serve qualcosa di più?

Forse prima ancora bisogna tornare all’origine: perché l’uomo deve lavorare? Qual è il senso del lavoro? Giovanni Paolo II diceva che «il lavoro è per umanizzarsi», si lavora per diventare uomini, per imparare ad amare ciò che ci viene dato ogni giorno e le persone che ci accompagnano.

Quale è la vera gioia che ci può portare il lavoro di una vita? I soldi? La carriera? È questa la gloria che ci può spingere e sostenere ogni giorno tra sudore, fatica e ansia? O la vera Gloria consiste nel prender parte alla costruzione di qualcosa di grandioso? Come se il nostro lavoro fosse un mattone dei tanti che servono per costruire una cattedrale!

In Il socio di minoranza di Marco Bardazzi e Marco Lessi, è raccontata la storia dell’imprenditore Vittorio Tadei, uomo dapprima concentrato con un solo fattore della vita, quello del lavoro nella sua azienda Teddy, ma che poi attraverso l’avvenimento di un fatto drammatico e grazie all’incontro con un prete, don Oreste Benzi, si è ritrovato impegnato in modo serio con tutti i fattori della sua vita, dalla famiglia agli amici, alla politica e alle opere di carità, gustandosi tutto in modo intenso, fino a un rinnovato sforzo lavorativo dove è emersa una creatività unica anche a livello organizzativo e commerciale, ma servendo i propri dipendenti e aiutandoli a sua volta a comprendere il senso profondo del loro lavoro. Il suo modo di lavorare era cambiato, non lavorava più per essere stimato e onorato dai dipendenti e dai conoscenti, ma si metteva al servizio di tutti proprio perché si sentiva voluto bene come uomo, anche con tutti i suoi limiti. Questo impegno totale con la vita e con il lavoro, ogni incontro, ogni momento di stupore, ogni dolore vissuto pienamente era un passo verso il suo destino facendo spazio al vero Socio di maggioranza capace di generare un popolo di lavoratori davvero felici e soddisfatti di lavorare.

E allora ben venga ogni tentativo di aiutare i lavoratori in questo momento complesso e pieno di incertezze, ben vengano studi e momenti di formazione tecnica sul lavoro, ma che aiutino davvero a giudicare le fatiche o le scoperte quotidiane, che possano costruire luoghi di lavoro dove ci si possa guardare e stimare per come siamo e non solo per quello che facciamo, che siano tentativi sinceri volti a riscoprire il senso profondo e la gioia del lavoro.

Fonte: Tempi.it

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