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Le vittime della società dell’eccellenza

Sono sempre più frequenti i casi di suicidi di giovani universitari. Si tratta di ragazzi che scelgono di intraprendere un percorso di studi e si trovano dinanzi ad una corsa contro il tempo, in cui la pressione spesso diviene ingestibile per via di scadenze continue ed esami a raffica. Molto spesso le università divengono esamifici o laurefici piuttosto che centri di incontro in cui la relazione sia al centro. Molti studenti, tra l’altro, lavorano e fanno sacrifici enormi pur di mantenere, ad esempio, la borsa di studio funzionale e fondamentale per pagare la retta universitaria.

Si sta andando sempre più, senza neanche rendersene molto conto, verso università d’élite, in cui gli studenti meritevoli di borsa sono coloro che assolvono alle richieste costanti e precise dell’istituzione accademica. Va da sé che chi merita comunque ma incorre in difficoltà familiari, personali, di qualsiasi sorta, sia emarginato e non considerato. Che sistema è? L’università è il maximum che dovrebbe insegnare la potenza della meritocrazia e la bellezza del merito e invece si mostra sempre più come luogo in cui chi finisce in fretta è valido e chi è lento non lo è. È una visione capitalistica che fa sentire lo studente in una morsa dalla quale deve uscire da solo se ce la fa. Altrimenti dovrà mollare o essere in difficoltà e gestirsi da sé le problematiche correlate.

Solo scrivere queste riflessioni fa insorgere rabbia e delusione per un sistema che si concentra esclusivamente sul profitto perdendo di vista la qualità. È, quindi, la competitività sfrenata l’unica via per avere una vita dignitosa e rispettabile? Dobbiamo interrogarci più a fondo e non lasciare passivamente che giovani appassionati si lascino inglobare e affossare da un sistema economico redditizio che si rivela fittizio a livello relazionale. Lo studente non è, così, solo un numero, ma fa numero. E il suo essere persona? E i suoi sogni? Non possiamo accettare una deriva del genere. Lottiamo perché si potenzi l’investimento nella sanità pubblica e si dia spazio al supporto psicologico. I giovani hanno bisogno di essere supportati, capiti, aiutati ma soprattutto visti. A volte una parola può cambiare la vita, può migliorare l’esistenza, può salvare la storia di un ragazzo che non ha trovato una porta di accesso, una zona di ascolto, un luogo in cui poter essere quel che è e non dover dimostrare di valere per ottenere quello che in realtà costituisce un suo diritto.

Ridiamo priorità alla scala valoriale in cui il dio denaro lasci spazio all’umano. Nel contempo, dobbiamo migliorare le logiche dei nostri atenei. Ritornino i giorni in cui gli open day siano degli incontri in cui i contenuti umani profondi la facciano da padrone. Il numero di iscritti sia davvero in secondo piano. Lo Stato dia una mano in tal senso. Le autorità anziché preoccuparsi di sopravvivere potrebbero occuparsi di far vivere l’università come un campus che dovrebbe, di per sé, costituire un’occasione indimenticabile in cui fare esperienza di relazione, in cui il contatto docente-studente dovrebbe essere la chiave di volta capace di spostare l’asse di un in individuo e portarlo a pensare al Bello del suo avvenire. Sono più di 500 ogni anno gli studenti universitari che si tolgono la vita. Sono vittime della società dell’eccellenza che esclude il più lento, chi non riesce a stare nei tempi previsti. È un fallimento collettivo, nostro. È il fallimento di un sistema in cui gli italiani sono tra quelli che dedicano più tempo allo studio, con circa cinquanta ore alla settimana ma un universitario su tre dichiara di soffrire di ansia e attacchi di panico. Il sistema scolastico e quello universitario italiano vogliono giovani performanti che poi spesso sul ranking mondiale risultano mediocri e non al passo della media europea.

L’efficientismo ai danni della formazione completa, integrata e profonda, al netto ovviamente dell’esistenza anche di coloro che eccellono ma costituiscono una parte minima della società attuale. Questa generazione viene definita “Z”. Beh, uno dei più grandi meriti di tale generazione è aver cancellato il tabù dello psicologo come figura che può favorire nei giovani un’altra visione. I giovani supportati e sostenuti possono essere capaci di prendersi in mano il futuro, fronteggiando le difficoltà, non senza paura, ma con la sicurezza di poter affrontare i timori e potercela fare. Andare all’università o andare a lavorare consci delle proprie capacità è una conquista cui dobbiamo tendere, non una chimera per pochi eletti. Possiamo contribuire a far sì che l’università non venga vissuta come un luogo in cui accelerare e tagliare il traguardo prima sia il traguardo agognato. Il vero traguardo è quello in cui ogni giovane respiri a pieni polmoni il proprio tempo, viva il “qui e ora universitario” come un tempo da assaporare, per formarsi come persona e come futuro professionista.

In tal modo c’è il rischio che non solo i giovani non cadano in angosce di morte ma possano toccare sensazioni belle corrispondenti ad attimi di felicità. Si può fare, non è utopico. Ma tutto passa dallo scambio umano. Lo studente non rientri nei business plan accademici ma entri nelle aule universitarie avendo dinanzi a sé lo sguardo umano da persona a persona, possa sentire che la relazione sia davvero al centro e che le sue aspirazioni passano da attraverso la bellezza e la sensibilità di un incontro autentico.

Fonte: Prof. Alfredo Altomonte | InTerris.it

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