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Le parole giuste per dire guerra – La Shoah ha ucciso le parole

Il Nobel Imre Kertész, sopravvissuto ai lager, e la sfida di preservare la memoria dell’orrore. Il racconto delle tragedie passate deve servire a capire il male, non a celebrare una ricorrenza

 

Nel mondo che viviamo oggi c’è ancora posto per una riflessione sulla Shoah? Quali parole, quali immagini, quali spazi dobbiamo inventare per preservare la memoria, come far sì che il passato resti carne viva per il presente? «Le parole di Hurbinek» prova a rispondere a queste domande, trasformando il giorno della Memoria in un mese di incontri che si svolgono a Pistoia dal 18 al 29 gennaio.

Giorni e incontri necessari per dare vita, spessore a un tema che rischia, col passare degli anni, di restare intrappolato in discorsi solenni e sempre più retorici che, anziché far germogliare la consapevolezza del passato brutale che il Novecento ci ha consegnato, rischiano di produrre l’effetto contrario, generare indifferenza, abitudine o, peggio, provocare quasi fastidio. Le iniziative di Pistoia sono parte di un progetto che tiene insieme le scuole e le università: è un progetto collettivo di politica della memoria quanto mai necessario in questi anni che stanno cambiando, forse irrimediabilmente, il nostro futuro.

Per riflettere sulla memoria è fondamentale l’opera di Imre Kertész: scrittore ungherese, premio Nobel per la letteratura nel 2002, di origine ebraica, nel 1944, all’età di quattordici anni viene deportato ad Auschwitz, in Polonia, poi a Buchenwald e nel campo satellite di Zeitz, in Germania. Sopravvisse alla guerra e tornò nella sua Ungheria in via di stalinizzazione. Lavorò come giornalista e traduttore.

Kertész ha fatto della trasmissione dell’esperienza della deportazione e della Shoah la ragione prima e ultima del suo lavoro, un compito – quello di tramandarne la memoria – che riteneva lungi dall’essere monopolio dei sopravvissuti, ma «esperienza sia umana che universale».

In un articolo di venti anni fa Mariarosaria Sciglitano, su il manifesto, riportava queste parole di Kertész: «I decenni mi hanno insegnato che l’unica via verso la liberazione passa attraverso la memoria, ma anche le modalità del ricordo variano. L’artista spera che l’esattezza della rappresentazione, che riporta anche lui nei sentieri mortali, lo condurrà alla forma più nobile di liberazione, alla catarsi, alla quale forse anche il suo lettore prenderà parte, in seguito. Potrei contare sulle dita delle mani gli scrittori che hanno creato una grande letteratura sull’esperienza dell’Olocausto… è molto più frequente che lo rubino ai suoi depositari e ne facciano una merce scadente. Oppure istituzionalizzano l’Olocausto, ne stabiliscono il rituale politico-morale, ne elaborano il linguaggio – spesso falso – impongono alla divulgazione persino le parole che, quasi automaticamente, provocano negli ascoltatori-lettori il riflesso dell’Olocausto: insomma, lo straniano in tutti i modi possibili e impossibili. Istruiscono i sopravvissuti: come devono riflettere su quello che hanno vissuto, del tutto indipendentemente da come questa mentalità si accorda con le esperienze reali; il testimone autentico un po’ per volta sarà soltanto d’impaccio, bisognerà rimuoverlo come una sorta di ostacolo».

Il riflesso dell’Olocausto, dice Kertész, che nella sua opera Essere senza destino sceglie che di dare all’orrore dei campi la voce di un ragazzo, è Gyuri Köves, ma è insieme sé stesso, a quindici anni. Ed è chiaro, oggi, perché l’abbia fatto, perché abbia impiegato quasi tre lustri a scrivere questo libro, perché è attraverso il punto di vista di un bambino che il lettore trova lo stato dell’uomo nei campi: insieme sbalordito, sconvolto e, per dirla con parole sue «abbassato a un livello infantile», un livello cioè in cui tutto quello che ci circonda è, o diventa, naturale. È la ragione per cui Kertész ha speso la vita a studiare il modo in cui si sviluppa il linguaggio in tutte le dittature, e a scegliere con precisione ogni parola per descrivere l’esperienza dei campi, perché è questo il compito della scrittura nel tramandare la memoria, creare consapevolezza non abitudine, esperienza di memoria condivisa dalla comunità e non appannaggio del singolo. Intervistato nel 2012 da Thomas Cooper, Imre Kertész, disse: «L’Olocausto ha distrutto il linguaggio».

La lingua era per lui uno degli strumenti della dittatura totale che ha reso un’orribile ideologia una parte appetibile della vita quotidiana di milioni di persone. «Dopotutto – disse – non è il pazzo squilibrato che uccide milioni di persone, hai bisogno di lavoratori efficienti, affidabili, di una buona catena di montaggio».

Come fanno le persone normali a trasformarsi in assassini, è l’altra faccia della domanda che siamo chiamati a farci oggi: come fare sì che la memoria dell’indicibile non finisca nel magazzino, sempre più polveroso, della consuetudine stanca di una memoria più celebrata che compresa, più rappresentata che capita.

Eventi, narrazioni che appaiono distanti dalla Storia che viviamo oggi, ma anche questo rischia di farci cadere in errore.

Uno dei passaggi più significativi di Essere senza destino è l’arrivo del protagonista nel campo di concentramento, il momento in cui un ragazzo è teso tra l’incredulità e il terrore, lo stupore e il desiderio di capire. In cui capisce che per sopravvivere deve adattarsi.

È nei primi venti minuti dell’arrivo nel campo, dice Kertész, che succede tutto. Per questo tutto di quei venti minuti doveva essere descritto nei minimi dettagli.

Oggi, negli anni della guerra di nuovo alle porte d’Europa, potremmo dire lo stesso. È dai primi mesi di questa guerra che potremmo capire tutto, capire come si deciderà il destino di milioni di persone, il nostro. Capire se abbiamo già visto quello che stiamo vivendo e come evitarlo. Capire se abbiamo, cioè, compreso le lezioni della Storia o se, come temeva Kertész in Kaddish per un bambino non nato «a una certa temperatura, le parole perdono la loro consistenza, diventano “liquide”».

Siamo chiamati, oggi, ognuno per la sua parte, ognuno nel racconto del suo pezzo di storia e di Storia, a non rendere liquide le parole per non rendere liquide le coscienze.

Fonte: Francesca MANNOCCHI | LaStampa.it

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