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Uscire dalla guerra guardando agli interessi di Russia e Ucraina

La polemica sulla guerra in Ucraina si impantana sul tema della gittata delle nuove armi da offrire a Kiev: 80, 150 o 300 chilometri? L’incertezza sul da farsi, e l’impossibilità di fornire rapide risposte, confonde i leader e li invischia nell’ambigua discussione sulla differenza tra armi difensive e offensive.

Allo stesso tempo si immobilizzano le decisioni dei governi europei. In maniera davvero singolare tale situazione assomiglia alla prima fase della guerra in Siria, quando i Friend of Syria (paesi occidentali e mediorientali) si interrogavano: a chi dare le armi senza che cadano in mani sbagliate? Anche allora la confusione era grande e il risultato fu una riluttanza generale e la graduale sospensione dei (pochi invero) aiuti militari.

In Ucraina non siamo a questo livello anche se il dibattito su utilità e opportunità di ulteriori armi inizia a farsi strada nell’opinione pubblica europea, con qualche eccezione. Nessuno vuole l’incidente diretto con la Russia che si avrebbe se fosse colpito il territorio russo, mentre gli ucraini continuano ad insistere per ottenere armi di lunga gittata che contrastino l’avanzata di Mosca nel Donbass.

Ciò dipende dal fatto che la guerra ha cambiato segno: dopo il ritiro dalle zone attorno a Kiev e a Kharkiv, i russi tornano alla strategia della concentrazione delle forze, spingendo in un solo punto. Davanti a tale rullo compressore, lento ma progressivo, nulla possono fare le forze di Kyiv se non rallentarne l’avanzata: troppi pochi uomini e troppo stanchi dopo tre mesi di guerra senza ricambi. Lo testimoniano sui media gli stessi combattenti ucraini: i russi sono troppi.

Su questo punta il Cremlino per occupare tutto il Donbass e forse poi aggirare Odessa via terra, allo scopo di chiudere al nemico ogni sbocco al mare. Tutto ciò prevede una guerra dai tempi lunghi, con molti episodi tattici ma poche sorprese strategiche. A meno che, per l’appunto, non sia colpita la Russia: ciò cambierebbe ancora una volta la natura del conflitto, trascinandoci in uno scontro diretto dove ogni colpo sarebbe permesso.

Lo stallo

Svanite così le fantasticherie di vittoria ucraina, l’estate si annuncia con un’ulteriore pressione russa alla quale Kyiv reagirà prevedibilmente chiedendo all’Occidente sostegno adeguato. Esiste il rischio che tali insistenze smettano di aver effetto: sappiamo quanto l’opinione pubblica europea sia volubile. Un possibile vantaggio per Mosca è tale strategia della lentezza e della pazienza a cui l’Occidente non è più abituato e la cui politica non ama i tempi lunghi.

Molti sperano ancora nell’impatto delle sanzioni che purtuttavia non è certo: i russi sono famosi per la loro resilienza. Lo stallo della guerra alla lunga favorisce il Cremlino anche se a prezzo di una terra bruciata e svuotata e di un’economia domestica devastata.

Tutto questo ci pone davanti al realismo Usa di Richard Haas, capo del Council for Foreign Affairs citato da Lucio Caracciolo: «Dobbiamo occuparci della Russia che abbiamo e non di quella che preferiremmo». Tradotto: la priorità occidentale dovrebbe essere di occuparsi di Putin (e dei suoi reclami) smettendola di sognare un regime change o addirittura un collasso da cui emergerebbe solo caos. Se ne è fatta già pessima prova in Libia. Il punto è che l’Occidente si è messo in una situazione difficile: per la Russia si è spinto troppo avanti ma è ancora troppo indietro per l’Ucraina. Tra europei non c’è accordo nemmeno sull’adesione alla Ue.

Come uscirne? Non si può smettere di aiutare Kiev ma nemmeno è auspicabile farsi trascinare in una guerra con la Russia, cosa che inevitabilmente accadrebbe aumentando la fornitura di armi (ma che potrebbe avvenire anche con un incidente).

Parlare di pace, o anche soltanto di tregua, appare politicamente costoso per tutti i leader coinvolti: per il Cremlino, dopo aver scatenato una “operazione speciale” di tale portata, sarebbe come perdere la faccia davanti al proprio popolo; per gli occidentali chiedere agli ucraini di rinunciare ad una parte del loro territorio è considerato un prezzo troppo alto da pagare. Anche Zelensky è in trappola: sa che appena parla di negoziato gli si scagliano contro i suoi nemici interni, già in agguato.

In sintesi: tutti hanno da perdere qualcosa da questa guerra ormai in stallo, ma non sanno nemmeno come uscirne. In Occidente uno dei temi più utilizzati per ovviare a tale problema è quello della “pace giusta”: si vuole la pace a patto che sia giusta. Il problema è che si tratta dello stesso tema della “guerra giusta” alla rovescia, l’altra faccia della medaglia.

Giusta in base a chi o a cosa? Se è in base ai nostri principi giuridico-morali, dobbiamo sapere che ne esistono altri, per noi ingiusti ma condivisi da diverse culture e popoli. «Non c’è pace senza giustizia» è una frase molto in voga anche tra i fondamentalisti islamici, solo che si tratta della “loro” giustizia.

Come se ne esce? Anche senza essere relativisti, si tratta pur sempre di una trappola etico-giuridica. Ci sono due modi per uscirne: quello religioso-morale secondo il quale – con la correzione di Giovanni Paolo II – al «non c’è pace senza giustizia» va aggiunto assolutamente il «non c’è giustizia senza perdono». Dal punto di vista politico-diplomatico c’è poi il metodo del dialogo multilaterale: mettersi d’accordo su principi comuni accettabili da tutti, sapendo che non si possono imporre ma solo comporre assieme. Il dialogo diviene quindi un incontro-scontro in cui si usano le armi della diplomazia, comprese quelle dell’astuzia e della comparazione.

Su tale terreno – che è quello delle Nazioni Unite e degli accordi internazionali – l’Occidente deve accettare le critiche che gli vengono rivolte soprattutto da terzi: non esiste alcuna una superiorità giuridico-morale dietro cui schermare – ad esempio – le sue guerre. Non ci si può nemmeno celare dietro le metodologie dei conflitti (la loro guerra sarebbe più barbara delle nostre).

Ovviamente questo vale al converso anche per la Russia. Sul punto delle frontiere territoriali occorre porsi molte domande concrete: realisticamente Mosca si ritirerà da ciò che ha conquistato a così caro prezzo? In ogni caso Mosca dovrebbe retrocedere sulle linee del 2014 (che avevamo accettato de facto) o sulle frontiere internazionali stabilite nel 1991? La Crimea è un caso a parte? E infine: come restaurare il principio dell’integrità territoriale così spesso rimesso in discussione (un po’ da tutti) dalla fine della guerra fredda?

Nel caso ucraino probabilmente occorre allargare la discussione oltre i territori e la questione della neutralità di Kiev, allo scopo di rendere possibili compromessi sull’architettura di sicurezza in Europa, tra cui un nuovo accordo sulle forze militari convenzionali, quello sulle armi nucleari intermedie e costruire una nuova relazione Nato-Russia.

Per procedere in questa direzione vanno superati i clichés e le caricature che reciprocamente si lanciano le parti in conflitto e i loro alleati, per concentrarsi sugli interessi nazionali. Si tratta di capire quali sono gli interessi di ciascun protagonista diretto e indiretto. Certamente l’Ucraina è stata completamente disarticolata dalla guerra: oltre i morti e i danni materiali, ci sono circa sette milioni di sfollati interni e circa tre milioni di rifugiati. Un quarto della popolazione ucraina è fuori casa, senza lavoro né sostentamento. Anche se finora ha resistito all’aggressione russa, la situazione è tale da comprometterne il futuro per molto tempo: rendere il paese invivibile e insicuro è già un risultato per Mosca.

Davanti a tale scenario le trattative rientrano pienamente nell’interesse nazionale ucraino: Kyiv non può lasciarsi attirare nella trappola di una lunga guerra di attrito e logoramento che ne consumerebbe le basi esistenziali. Lo stesso discorso vale per la Russia anche se non solo e non tanto in termini materiali ma soprattutto politico-diplomatici: è interesse di Mosca evitare di restare un paria mondiale per numerosissimi anni. Sono queste le basi da cui partire.

Fonte: Mario GIRO | Domani.it

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