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“Top Gun Maverick”: l’eroismo portato alla sua maturità

Lo scrittore Henri Quantin ha visto il sequel del famoso “Top Gun” del 1986: verdetto positivo! La visione dell’eroismo di cui trasudava il primo lungometraggio ha trovato il proprio compimento: Top Gun resta una scuola di superamento di sé in cui il coraggio trova la propria pienezza nel perdono, nella fedeltà e nell’umiltà.

Cominciamo dalle obiezioni:

  • sì, Top Gun Maverick è una grossa macchina commerciale americana;
  • sì, Tom Cruis ha guadagnato milioni che andranno indubbiamente ad arricchire (ancora di più) la Scientology Church;
  • sì, la scena “donna-sorridente-appoggiata-alla-sua-Porsche-sul-tramonto-al-mare-tutta-da-baciare” attinge a un’estetica da cartolina che neanche un quattordicenne oserebbe appendersi in cameretta;
  • sì, a Hollywood la star maschile può esibire il sorriso seducente pur veleggiando verso i sessanta, laddove la partner femminile del 1986 otterrebbe tuttalpiù il ruolo della nonna (Kelly McGillis, la deuteragonista Charlie del 1986, non è stata neanche contattata, perché divenuta – stando alle sue proprie dichiarazioni – «vecchia e grassa»);
  • sì, la strategia di marketing liscia il pelo a quelli che nel 1986 avevano quindici anni e che hanno sognato di farsi i pettorali da giocatori di beach-volley, di caricarsi una bella bionda in moto (o di farsi caricare, a seconda…) e di conoscere la sensualità di una notte d’amore dal filtro-camera bluastro;
  • sì, in ultimo, per chi vuole vivere nel soffio dello Spirito Take my breath away è un po’ corto.

Trasmettere

Eppure… eppure… Girando Top Gun Maverick trentasei anni dopo Top Gun, la Paramount è riuscita a produrre un grande film che convince sia per il brio delle scene d’azione che per le qualità umane poste in risalto dall’intrigo. Abbiamo visto così tanti sequel dalla sceneggiatura inconsistente, fondati esclusivamente sulla certezza che la nostalgia degli spettatori invecchiati avrebbe riempito le sale… che abbiamo diritto, ora, di salutare calorosamente una storia in cui l’eroismo è maturato con il personaggio di Pete “Maverick” Mitchell, impersonato ancora da Tom Cruise.

Non che sia veramente divenuto saggio e posato, ma il cane randagio del 1986 ha compreso che la prodezza non serve se non quando spinge gli altri a superarsi a loro volta. Quando ha per solo scopo il dimostrare in galleria di essere i migliori, rapidamente essa ricade nella vana fanfaronata. Alunno-pilota nel primo film, Maverick deve adesso apprendere a fare l’istruttore. Non si poteva dire più chiaramente di così che è cosa buona saper cambiare generazione, e che diventare un buon professore esige almeno altrettante rimesse in discussione che diventare un buon pilota. In questo sequel, la sfida è sempre sull’orlo dell’impossibile, ma il senso è tutt’altro: non più dimostrare che si è gli unici capaci di fare una cosa, ma suscitare vocazioni e trasmettere la sete di superamento di sé.

Indubbiamente si potrebbe assumere a criterio di valutazione di un buon sequel la questione se esso mancherebbe al primo film, ove non venisse prodotto: incontestabilmente questo è il caso. La sceneggiatura di Top Gun Maverick ha il merito di attingere abilmente alla sua fonte, in una continuità organica che permette di condurre a termine ciò che era rimasto in sospeso. Nel 1986, Pete Mitchell perdeva il suo co-pilota Goose – che era anche la sua “unica famiglia” – in un incidente con l’F14. Scagionato da un processo che rivelava un difetto tecnico nel velivolo, Maverick era comunque roso dal senso di colpa e si sentiva responsabile della morte di quello che era quasi un fratello, quello che poco tempo prima gli aveva detto: «Ho una famiglia, io: non posso permettermi di mandare tutto all’aria».

Tornare coi piedi per terra

Divenuto istruttore, Maverick deve formare il figlio di Goose, Bradley, che si presenta sbattendogli subito in faccia un “Mio padre credeva in lei; non farò lo stesso errore”. Per Bradley, il film è l’itinerario del perdono, condizione della ritrovata fiducia in sé e nell’altro; per Pete Mitchell è l’itinerario di una paternità vicaria: queste due evoluzioni parallele sono due facce della fedeltà a un medesimo defunto, il padre e l’amico considerato come un fratello.

Per Maverick, si tratta più precisamente di essere fedele ai due genitori scomparsi di Bradley, senza tuttavia minare la libertà del figlio. Essere una figura paterna senza credersi il padre – tantomeno il Padre –: la difficoltà è tutta qui. Del resto, la paternità e la filiazione erano già al cuore di Top Gun del 1986: all’epoca, Pete Mitchell doveva imparare a convivere col fantasma di un padre caduto eroicamente in Vietnam. Già classificate “segreto della Difesa”, le circostanze di quella morte gli sarebbero state finalmente rivelate dal comandante della base (altra figura paterna): «Il suo F4 era stato colpito, ma avrebbe potuto riportarlo a terra. Ha preferito restare ed ha salvato tre aerei, prima di schiantarsi al suolo».

In Top Gun Maverick, Pete Mitchell si trova in una situazione simile, al fianco del figlio di Goose. Dopo aver rivaleggiato nell’eroismo sacrificale, l’uno e l’altro scoprono un’altra lezione: morire per gli altri è cosa talvolta singolarmente vicina a una via di fuga suicida. Molto significativamente, i due dovranno evitare insieme la possibilità di una morte grandiosa, in un fuoco d’artificio aereo, con una nuova sfida rasoterra. La simbolica è tanto semplice quanto efficace: bisogna saper tornare verso terra, dopo aver sognato di brillare in cielo.

Per un istante ci si sorprende a dimenticare il compiaciuto sorriso hollywoodiano di Tom Cruise per pensare alle parole della Buona Strada degli Scout d’Europa:

Uno scout che non sa morire non serve a niente. Ma ricordati che talvolta vivere è altrettanto difficile.

Il senso della fedeltà

Caduti entrambi dal cielo, ciascuno dei due avendo in sequenza messo a repentaglio la propria vita per salvare quella dell’altro, Pete e Bradley si ritrovano dunque al suolo e privi dell’armatura tecnologica. Sdraiati l’uno di fianco all’altro, devono riprendere la loro relazione dal principio (e forse il bianco della neve può evocare una nuova pagina da scrivere). Dal principio? Sì, ma senza tabula rasa: la loro sola possibilità di sopravvivere si trova infatti in un vecchio F14, l’aereo che nel Top Gun del 1986 aveva saldato il sodalizio di Maverick e Goose, prima di essere il tragico teatro della loro caduta. Il modo migliore per affrontare la crisi presente, suggerisce l’intreccio, è la fedeltà al passato: fedeltà all’aereo, certo, un po’ come per l’invecchiato James Bond di Skyfall che si sente rinvigorire davanti alla Aston Martin dei primi episodî. Fedeltà soprattutto, attraverso l’aereo, alla memoria del fratello d’armi/padre.

Si nota en passant il medesimo senso di fedeltà al passato nella comunità dei piloti d’élite. Maverick ritrova come un fratello l’antico rivale del 1986, Iceman, figura di un’altra forma di eroismo – la lotta contro la malattia, senza gelosia per il collega sano, che pure nel passato l’aveva sfidato tanto spesso. Sembra che la lezione dell’istruttore del 1986 sia stata recepita: in Top Gun ciascuno lotta per vincere il trofeo, ma quando si è a terra tutti i piloti sono nella medesima squadra.

Nessuna tabula rasa, dunque, con la nuova generazione, ma piuttosto nova et vetera, secondo la giusta definizione tomistica della tradizione: cose antiche e cose nuove. Solo la fedeltà al passato rende i due personaggi principali capaci di sentire una voce dall’aldilà che li spinge a un nuovo superamento di loro stessi. L’invocazione di Bradley al padre morto («Parlami, papà!») e quella di Pete all’amico scomparso («Parlami, Goose!») possono allora toccarsi. L’istruttore e l’allievo hanno fatto esperienza di un eroismo che, come ogni vera trasmissione, unisce i morti e i vivi.

Un eroismo riuscito

In altre parole, il vecchio temerario ha qualcosa da insegnare al giovane presuntuoso, a condizione che l’uno e l’altro siano in ascolto delle voci del passato per affrontare il presente. In modo decisamente commovente, questa lezione dell’intreccio trova prolungamento nel contesto reale della realizzazione del film: «In memoria di Tony Scott», nota sobriamente il generico dei titoli di coda, per rendere omaggio al regista del primo lungometraggio. Così Joseph Kosinski, il regista di Top Gun Maverick, iscrive il proprio nome nella filiazione di un predecessore a cui ha cercato di essere fedele, come hanno fatto i personaggi del film.

Alla fine del Top Gun del 1986, Maverick affidava al suo comandante la propria volontà di tornare da istruttore sui posti in cui era stato alunno. A quel desiderio, inatteso sulle labbra di un giovane indisciplinato, il comandante rispose ridendo: «Top Gun?! Che Dio ci aiuti!». Trentasei anni dopo questo sequel ci sarebbe mancato, se non fosse stato girato: vi si scioglie un intreccio incompiuto, vi si approfondisce una visione dell’eroismo solo abbozzata e vi si mostra che anche una giaculatoria poco seria può talvolta essere esaudita. Non temiamo di essere giudicati sarcastici quanto il comandante, se volentieri diremo “Grazie, Dio, per Top Gun Maverick”.

Fonte: Henri Quantin  | Aleteia.org
[traduzione dal francese a cura di Giovanni Marcotullio]

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