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La prova del noveL’economia globale resiste e anche l’Italia ha un ruolo da giocare

Se prima eravamo considerati una Grecia-bis, gli equilibri geopolitici che sono seguiti alla pandemia hanno invece proiettato l’Italia in una dimensione nuova, anche grazie al prestigio di Draghi. Ora però ci attende la sfida decisiva del Recovery plan.

Quando nel 2019 ci siamo resi conto delle proporzioni che l’epidemia del coronavirus stava assumendo, ne abbiamo immediatamente fatto scaturire un giudizio che può essere sintetizzato come “meno mobilità uguale meno globalizzazione”. Via via però le cronache economiche hanno fornito altri input che non risultavano del tutto assimilabili a quel primo giudizio. Le cosiddette catene globali del valore che avevamo giudicato a rischio hanno invece dimostrato una capacità di resistenza sicuramente superiore al previsto. A dimostrazione che questo soggetto relativamente nuovo si è costruito, certo, su un sistema di scambi commerciali ottimali ma ha anche creato un retroterra di valori comuni di cultura industriale “transfrontaliera” che nei momenti decisivi finisce per operare come un pavimento.

Una riflessione che vale in particolar modo per il sistema produttivo italiano che in queste catene recita prevalentemente la parte del fornitore (si vedano i legami e il modo di funzionamento della filiera del lusso francese e dell’automotive tedesca) ma anche di capo-commessa. Per mesi gli industriali del Nord hanno avuto timore di uscire da quelle catene e invece non si ha notizia di un solo caso in cui gli imprenditori italiani siano stati sostituiti da aziende di altri Paesi, a testimonianza del fatto che si scelgono i fornitori in base a considerazioni di medio periodo che includono, fortunatamente, la qualità del manufacturing e la resa del capitale umano.

Se, dunque, possiamo mettere nella casella degli attivi questa straordinaria capacità delle catene del valore di reggere addirittura l’interruzione della mobilità degli uomini e delle merci, a questo punto dovremmo interrogarci sulla tenuta più generale della stessa globalizzazione. Domanda secca: si è rotta? Secondo Alessandra Lanza, senior partner di Prometeia e una delle maggiori studiose dei flussi commerciali internazionali, è difficile dare una risposta altrettanto secca.

La pandemia ha accelerato tensioni già presenti nell’arena globale e ha contribuito a rafforzare una tendenza alla regionalizzazione degli scambi mentre se sappiamo analizzare il versante più prettamente geopolitico non è facile ricondurre ad unum i fenomeni che si sono sprigionati, anche se sono nella buona sostanza riconducibili al riposizionamento parallelo di Stati Uniti e Cina. Non si ricorda nemmeno più il numero delle copertine che quest’anno l’Economist ha dedicato al colosso asiatico proprio nel tentativo di fotografare la complessità dei movimenti a cui la grande fabbrica del mondo ha dato vita e che riguardano il terreno delle alleanze internazionali e del funzionamento interno di un sistema modellato sul capitalismo di Stato, i rapporti tra economia e politica e la stessa evoluzione della figura di Xi Jinping.

Di sicuro, è sempre Lanza a sostenerlo, possiamo dire che in un contesto così in movimento Bruxelles non è stata ferma, ha preso coscienza della necessità di presidiare l’arena geopolitica, ha cambiato linguaggio ed è arrivata a sostenere la necessità di dotarsi di una visione strategica. Tutte novità così profonde che ci fanno sembrare i tempi e la cultura prevalente nella Commissione presieduta da Jean-Claude Juncker lontani anni luce.

Toccherà agli storici spiegarci se è stata la pandemia a generare questa profonda discontinuità o se invece in qualche maniera la svolta fosse già scritta nelle cose. Ovvero se l’accentuazione del carattere di capitalismo politico, come recita il titolo del bel libro di Alessandro Aresu, che ha assunto Pechino e l’azione parallela di Washington non avrebbero comunque spinto l’Ue a rivedere il suo precedente (pigro) posizionamento.

Per l’Italia le conseguenze sono immediate e insieme profonde. Se fino a non troppo tempo fa era considerata una sorta di Grecia-bis, un Paese candidato a sperimentare la durezza del rigore europeo, gli equilibri geopolitici seguiti all’epidemia l’hanno proiettata in una dimensione nuova e hanno fatto percepire quanto sia importante avere una leadership. Paese di alta reputazione come quella di cui gode Mario Draghi. Proprio perché i rapporti economici delle catene del valore hanno già de facto integrato una buona parte dell’industria del Nord dentro l’economia renana è evidente che il passaggio successivo che ne consegue è quello di tradurre il quotidiano in obiettivi e strategia, intensificando e “formalizzando” l’appartenenza a quell’ipotetico triangolo che la unisce a Francia e Germania.

Se pensiamo che solo qualche tempo fa gli stessi due Paesi avevano sottoscritto nel 2019 ad Aquisgrana un trattato bilaterale nel quale prendevano impegni comuni di politica industriale (senza minimamente consultare Roma) ne emerge una novità estremamente positiva. Che poi questa novità trovi sul suo cammino immediatamente due stress test senza precedenti come la transizione ecologica e quella digitale, da una parte rafforza l’idea dell’Europa come soggetto di politica industriale e dall’altra rende l’opinione pubblica italiana più ottimista sull’esito della doppia sfida. Non si sente sola. Aggiungo che già solo accettare questo tipo di agenda ha fatto segnare al dibattito politico interno un incredibile salto di qualità, posto che in un tempo che ora ci sembra lontano (ma tanto lontano non è) i temi che erano al centro del dibattito riguardavano il sovranismo economico e addirittura in qualche frangia di esasperati l’uscita dall’euro.

Se abbandoniamo per un momento gli scenari geopolitici e la loro indiscutibile forza cogente e torniamo all’anatomia della globalizzazione dobbiamo annotare al primo punto la fenomenologia dei cosiddetti colli di bottiglia. L’asimmetria temporale della ripresa tra le diverse macro-aree geografiche e il surriscaldamento dovuto al rimbalzo produttivo hanno generato tutta una serie di disfunzioni che messe assieme finiscono per costituire una sorta di dark side della ripartenza post-Covid. Gli incredibili aumenti dei prezzi delle materie prime sommati a quelli dei listini della logistica dimostrano come il sistema non riesca a governare in automatico un ritorno pieno dei flussi commerciali e come manchino sedi in cui quest’operazione si possa quantomeno tentare.

Più complesso forse è il fronte dei semiconduttori la cui produzione è troppo concentrata per poterla gestire con equilibrio (sempre l’Economist qualche mese fa si è chiesto se Taiwan non fosse diventato un punto critico della pace mondiale addirittura più caldo del Medio Oriente) tanto è vero che non solo Intel, una volta regina del mercato, ha ripreso ad aprire fabbriche ma ha anche deciso di insediarsi in Europa per coprire meglio un mercato comunque strategico.

Nei primi mesi del 2020 si era pensato che gli squilibri nella mobilità delle merci indotta dalle restrizioni sanitarie avrebbero messo vento nelle vele dei processi di back-reshoring: manca ancora un bilancio ponderato di quanto quell’intuizione si sia trasformata in decisioni coerenti da parte dei grandi gruppi industriali, non mi pare però che si possa dire che si sia creata una tendenza forte al rientro delle produzioni.

Qualche operazione di reshoring ha finito per accompagnare la regionalizzazione dei flussi globali e in Italia, per guardare al concreto, c’è solo un settore che sembra essere intenzionato a farne una priorità assoluta ed è quello della produzione di biciclette. In sostanza la notizia della morte della globalizzazione è, come si usa dire, largamente esagerata: si sono andati delineando alcuni trend di correzione ma ci sono – va detto – anche molti e rilevanti problemi aperti che, secondo gli economisti più avvertiti, potrebbero anche farsi sentire già in questa stagione minando la robustezza e la profondità della ripresa economica.

Tornando alle scelte coraggiose di politica industriale e delle risorse economiche operate da Bruxelles il ruolo di protagonista se l’è guadagnato il piano NextGenerationEu, che potremmo addirittura interpretare come ritagliato ah hoc per favorire un pieno ritorno dell’Italia nei Paesi di testa della comunità europea. C’è chi con una battuta lo definisce Next- GenerationItaly. Infatti, come dicono alcuni economisti, una comparazione dei recovery plan di Italia, Francia e Germania ci fa trarre alcune considerazioni che vale la pena riportare.

Dal punto di vista delle quantità di risorse non c’è paragone: dalla Ue arriveranno in Italia 191 miliardi tra sussidi e prestiti, in Germania 28 e in Francia 45. Questo flusso dovrebbe servire a recuperare due gap italiani nei confronti dei partners: la crescita troppo lenta della produttività e il ristagno degli investimenti. Nel piano tedesco è preponderante la componente di incentivi alle imprese e la priorità è individuata nella digitalizzazione, quello francese sceglie il green su cui punta 1 euro su 2.

Il piano italiano si presenta più ambizioso perché, seppur con modalità differenti si occupa di ecologia e innovazione e investe i nodi della pubblica amministrazione. I dubbi non riguardano quindi l’ampiezza del perimetro: i commenti degli analisti sul caso Italia si appuntano sulla capacità di implementazione di un così articolato programma di investimenti che richiede una pletora di regolamenti attuativi, un adeguato supporto di piccole/grandi riforme della macchina amministrativa da adottare in corsa e una rigorosa cultura del rendiconto. Tutte virtù necessarie perché saper spendere diventa la prova del nove dell’arte del governare in questa complicatissima curva della storia quale si sta rivelando il dopo pandemia.

Fonte: Dario Di Vico | L’Inkiesta.it

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