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Dallo Stato laico alla sua caricatura: il laicismo di Stato

Partendo dall’excursus del corretto uso del termine ‘laico’, da non intendere come ‘non cristiano’, il presidente emerito della Cassazione Pietro Dubolino ricorda come sui principi fondamentali del vivere sociale l’alternativa non è fra confessionalismo e libertà, ma deve puntare al bilanciamento dei diritti in gioco.

1. La nozione di “Stato laico” è oggi comunemente intesa come contrapposta a quella di “Stato confessionale”, caratterizzandosi la prima, rispetto alla seconda, per la totale estraneità e indifferenza del potere pubblico rispetto alle scelte religiose riservate, come tali, alla insindacabile discrezionalità di ciascun individuo, e inoltre per il rifiuto, da parte del medesimo potere pubblico, di ispirare la propria azione politica a principi che siano o possano essere considerati come propri di una determinata confessione religiosa. Può essere, quindi, motivo di sorpresa il sostenere (come qui si vuol fare), che, invece, è proprio dalla religione e, più precisamente, dalla religione cristiana che trae origine il concetto stesso di “laicità” e quindi anche la sua riferibilità al potere pubblico, pur senza la contrapposizione, e anzi addirittura in unione con il concetto di “confessionalità”.  A conforto di tale affermazione occorre partire dal rilievo che il termine “laico” (da “laos= popolo) designava, originariamente, nell’ambito del cristianesimo, il fedele non investito dell’ordine sacro e pertanto distinto dal “clericus”, cui invece il detto ordine sia stato conferito. Il non cristiano non era, quindi,  il “laico” ma  il “gentile” o, più tardi, il “pagano”.

Con il riconoscimento, ad opera di Teodosio il grande (fine IV secolo) del Cristianesimo come unica religione dell’Impero romano, lo Stato diventa quindi , al tempo stesso, “confessionale” ma anche “laico”, dal momento che l’imperatore, nel quale esso si impersona, dev’essere necessariamente cristiano ma, altrettanto necessariamente, non può essere un “clericus”. Non era infatti ammissibile che il titolare del potere statale potesse essere al tempo stesso investito del potere spirituale, essendo questo  proprio del sacerdozio e, per esso, al massimo grado, del Papa. In ciò si realizzava una decisiva discontinuità rispetto alla tradizione precristiana, in cui l’imperatore era anche, di norma, investito del ruolo di “pontifex  maximus” e, quindi, di custode e garante dell’osservanza  della religione dei padri, da cui si riteneva dipendesse la “pax deorum” e, di conseguenza, la conservazione  dell’Impero.

2.  Sotto questo profilo il cristianesimo si differenziò, poi, grandemente  (e continua a differenziarsi) anche dall’islamismo, atteso che anche per quest’ultimo non può, in linea di principio, esservi distinzione e men che mai contrapposizione tra potere politico e potere spirituale o religioso. Maometto fu infatti, al tempo stesso, capo politico, militare e religioso e tale caratteristica ebbero anche coloro che, a vario titolo (califfi, sultani, emiri, etc.), si accreditarono, per lunghi secoli, più o meno legittimamente, come suoi successori. Ancor oggi, nei paesi di tradizione islamica retti a regime monarchico (Arabia saudita, Giordania, Marocco ed altri minori), i sovrani riallacciano la loro autorità a quella del Profeta;  e anche in quelli che hanno forma di repubblica non è neppure concepibile che chi esercita il potere non faccia pubblica professione della fede islamica, assumendo quindi, per ciò solo, l’impegno di adottare politiche che non siano in contrasto con l’obbligo, gravante su ogni buon musulmano, di salvaguardare e, se possibile, estendere la sfera di influenza dell’Islam. L’ideale musulmano resta, infatti, pur sempre  quello della restaurazione del califfato, anche se vi sono, naturalmente, varietà di opinioni circa il modo con il quale esso possa essere realizzato.

Vi è poi da osservare che l’Islam non conosce neppure il concetto di “sacerdozio”. Il sacerdote, infatti, è essenzialmente colui che compie il sacrifico rituale alla divinità; e nel cristianesimo, erede dell’ebraismo, questo sacrificio è il sacrificio eucaristico. Nell’islamismo esistono solo precetti che il fedele deve osservare ma non esiste alcun tipo di “sacrificio” e quindi non può esistere il “sacerdote” in senso proprio. Possono esistere soltanto dei soggetti che, a vario titolo e con varie denominazioni (imam, ulema, etc.) assumono la guida spirituale dei fedeli, in virtù della loro particolare conoscenza della dottrina. Appare quindi chiaro, a questo punto, come il mondo islamico non possa in alcun modo concepire il concetto di “laicità”, essendo questo correlativo e complementare a quello di “sacerdozio”.

3. La regola della non identificabilità, nella visione cristiana, fra titolare del potere politico e titolare del potere spirituale sembra tuttavia soffrire eccezione quando si ponga mente alla esistenza dello Stato pontificio, il cui sovrano è lo stesso titolare del potere spirituale. Al riguardo deve però osservarsi che lo stato pontificio (tuttora esistente, anche se di ridottissime dimensioni) non costituiva e non costituisce un modello ideale per l’intera cristianità, ma rispondeva (e risponde) in ultima analisi soltanto all’esigenza di far sì che il Papa non sia formalmente suddito di alcun altro potere politico al quale debba quindi, come suddito, prestare obbedienza. Lo Stato pontificio, in sostanza, altro non è se non la forma che necessariamente deve assumere l’assetto di quel “tanto di territorio” (espressione in uso all’epoca delle trattative che portarono al concordato del 1929)  che valga a costituire una sorta di “involucro protettivo” per il libero esercizio del potere spirituale.

4. Tornando ora all’origine dello Stato laico, inteso come Stato impersonato da un sovrano necessariamente cristiano e necessariamente laico, va osservato che tale situazione non impediva certamente l’insorgere di contrasti tra quel sovrano ed il titolare del sommo potere spirituale. Basti pensare a quella che viene ricordata come lotta per le investiture tra Papato ed Impero, ai tempi dell’imperatore Enrico IV e del Papa Gregorio VII. Tali contrasti ebbero storicamente a verificarsi soprattutto nell’Europa occidentale, in conseguenza del fatto che quivi al crollo dell’Impero romano d’occidente aveva fatto seguito, dopo qualche secolo, la creazione, ad opera della Chiesa, del Sacro Romano Impero. Era naturale, quindi, che il Papa rivendicasse una sua supremazia nei confronti dell’Imperatore, il quale a sua volta, però, la contestava, in nome del titolo del quale era investito, che lo faceva sentire comunque erede di Augusto e di Costantino. Diversa era la situazione nell’Impero d’oriente (sopravvissuto, come è noto, sia pure attraverso sempre più consistenti mutilazioni territoriali, fino al 1453), dal momento che l’imperatore d’oriente poteva, in effetti, a miglior diritto, rivendicare quell’eredità, comprensiva anche del ruolo di “episcopos ton ektòs” (vescovo dall’esterno) che Costantino si era attribuito nei confronti della Chiesa, tanto da assumere egli stesso la formale presidenza del concilio ecumenico svoltosi a Nicea nell’anno 325.

La conflittualità tra potere statale e potere spirituale ebbe poi modo di manifestarsi anche quando il primo era rappresentato da sovrani dei singoli Stati nazionali, ciascuno dei quali applicava a sé stesso il principio, elaborato dal diritto pubblico dell’epoca, secondo cui “rex in regno suo est imperator”. Possono ricordarsi, a puro titolo esemplificativo, i contrasti tra il papato ed il regno di Francia, all’epoca di Luigi XIV, con riguardo alle c.d. “libertà gallicane”, o il contrasto tra il Papato e la Repubblica di Venezia (assimilabile, per quanto qui interessa, ad un regno il cui sovrano, “pro tempore”, era il doge), insorto agli inizi del XVII per questioni di giurisdizione sui sacerdoti resisi responsabili di reati.

Con riguardo a detta ricorrente (e quasi endemica) conflittualità vi è però da dire che, da parte di chi rappresentava lo Stato, non era mai minimamente posta in discussione la totale ed incondizionata adesione alla religione  cristiana. Non era neppure lontanamente concepibile che il sovrano, per il solo fatto che era in lotta con il Papa per questioni politiche, potesse abiurare alla religione cristiana per aderire ad un’altra religione o anche solo per dichiararsi ateo o indifferente. E ciò a prescindere, naturalmente, da quella che potesse essere la sua personale, più o meno convinta adesione ai dogmi e alle regole morali del  cristianesimo.

5. Le cose cominciarono a cambiare radicalmente con la Rivoluzione francese, figlia del pensiero illuminista e, più specificamente (per quel che riguarda il nostro argomento), del pensiero di Rousseau, per il quale il potere politico non poteva più ricercare la propria legittimazione nella volontà divina (secondo il noto detto paolino “omnis potestas a Deo”) ma doveva ricercarla nella c.d. “volontà generaleespressa, in ultima analisi, dal popolo. Ciò significava che la volontà generale poteva investire del potere politico anche soggetti dichiaratamente non cristiani e dar loro mandato di far assumere allo Stato un carattere di neutralità o anche di antagonismo non solo e non tanto nei confronti del capo della religione cristiana (come per il passato) ma anche e soprattutto nei confronti della religione stessa, in sé e per sé considerata. Il che, com’è noto, ebbe poi in effetti a verificarsi, sia all’epoca della rivoluzione francese sia in epoche successive ed in luoghi diversi. Si ponevano così le condizioni perché l’antica e mai sopita conflittualità tra potere “laico” (ma cristiano) e potere spirituale proseguisse su basi nuove, che escludevano il carattere cristiano del primo, senza tuttavia rinunciare alla sua tradizionale e tralaticia connotazione di “laicità”, sia pure avulsa, ormai, dal suo originario significato.

6. Vi è però da dire che questa nuova conflittualità, se si basava, di frequente, sul rifiuto della religione cristiana, non poneva  generalmente in discussione le comuni e tradizionali regole morali di comportamento, che rimanevano condivise. Lo Stato che cercava di estromettere la Chiesa dall’insegnamento pubblico, da essa per secoli pressoché monopolizzato, lo faceva per pure e semplici ragioni di potere, e non perché avesse come scopo di insegnare, una volta divenuto padrone del campo, regole morali sostanzialmente diverse da quelle del passato. Analogamente, lo Stato che intendeva introdurre il matrimonio civile lo faceva, anche in questo caso, per finalità essenzialmente di potere, che si realizzavano con il sostituire il prete con il sindaco o il prefetto, senza tuttavia incidere significativamente sulle caratteristiche del matrimonio in sé (escluso, naturalmente, il carattere sacramentale).

Basti pensare, per limitarci all’Italia, che il matrimonio civile, quale disciplinato dal codice del 1865 (certamente non ispirato, atteso il contesto politico, a intenti di compiacimento nei confronti della Chiesa) prevedeva come unica causa di scioglimento quella costituita dalla morte di uno dei coniugi. Anche in Francia, del resto, il divorzio, pur se introdotto nel 1792, fu poi abolito con la Restaurazione e venne reintrodotto, tra vivaci polemiche, solo nel 1884, sotto il regime della Terza Repubblica, notoriamente anticlericale e filomassonica. Gli stessi regimi che si ispiravano alla dottrina marxista, pur essendo questa ferocemente critica, com’è noto, nei confronti di quella che definiva la “morale borghese”, presero ad ostentare tuttavia (dopo un primo, breve periodo di libertarismo succeduto all’instaurazione, in Russia, del potere dei “soviet”), una incondizionata adesione (poco importa se reale o apparente) a stili e dettami di vita che in realtà ben poco si distaccavano da quella stessa morale, per mettere anzi in luce, a fini propagandistici, la vera o presunta corruttela dei costumi dei non appartenenti alla classe proletaria. E analogo atteggiamento era tenuto dai partiti non al potere di ispirazione marxista.

7. Questa situazione subisce però un’ulteriore cambiamento successivamente al 1968, in conseguenza del movimento che, per la prima volta, si pone in rotta di collisione non con gli assetti del potere politico in quanto tali ma proprio con ogni tipo di regola, a cominciare dalle regole morali, quale che sia l’autorità (stato, chiesa, famiglia) preposta alla loro tutela. Nasce lo slogan “vietato vietare”. Ed ecco allora che una volta passate le leve del potere statuale, per il trascorrere del tempo,  nelle mani della generazione formatisi, per buona parte, sotto l’influenza delle idee del 1968, quel potere viene per la prima volta adoperato per combattere anche le regole morali tradizionali, in precedenza ritenute invece utili, a prescindere dal loro fondamento religioso, proprio per la sicurezza e la prosperità dello Stato stesso. Ed ecco quindi il perché della più accentuata lotta contro le autorità religiose in genere e contro la Chiesa cattolica in particolare, nella misura in cui la stessa continua a farsi, di quelle stesse regole, sostenitrice. Diventa facile, in questa situazione, da parte dello Stato, giustificare questa lotta in nome della sua pretesa laicità, la quale, però, a questo punto, non è più sana “laicità”, ma è soltanto “laicismo”. E siamo così giunti al laicismo, appunto, di Stato.

8.  A sostegno di questo laicismo si invoca spesso il principio secondo il quale ciascuno è libero di seguire le regole morali che preferisce, ma non può pretendere che esse siano imposte, con l’autorità dello Stato, a tutti i cittadini. Tale principio, in sé e per sé condivisibile, si presta però ad essere fraudolentemente strumentalizzato nella misura in cui si voglia far credere che lo stato “laico” sia per sua natura uno stato eticamente neutro. Nulla di più falso. Questo tipo di ragionamento confonde infatti  tra neutralità religiosa e neutralità etica, la prima delle quali è possibile e, se si vuole, anche doverosa; la seconda no, per la semplice ragione che lo Stato, qualsiasi Stato, non può non ispirare la sua legislazione e la sua prassi al riconoscimento  di determinati valori, da esso  ritenuti, a differenza di altri, meritevoli di tutela; il che equivale a dire che non può non assumere come proprie  determinate visioni etiche, le quali possono essere della più varia natura ma comunque, proprio perché sottese all’azione dello Stato, e quindi sostenute dalla sua autorità, finiscono inevitabilmente per coinvolgere e condizionare la vita di tutti i cittadini, compresi quelli che non le condividono.

E’ del tutto illusorio, quindi,  pensare ad uno Stato che, privo di riferimenti etici, lasci a ciascuno il massimo della libertà senza imporre, per conseguenza, alcunché ad alcuno. La libertà ha infatti due facce: quella del “fare” e quella del “non subire”. Inevitabilmente, più si aumenta per taluni la libertà di fare e più si diminuisce per altri quella di non subire, e viceversa. Si pensi, per fare un esempio banale, al turpiloquio. Una volta, in Italia, esso era vietato da una norma penale. Ciò costituiva un limite alla libertà di espressione di alcuni ma tendeva a salvaguardare la libertà di altri di non essere infastiditi dal turpiloquio altrui. La norma penale è poi stata abrogata. Appare evidente che in questo modo, bene o male che ciò sia stato, si è prodotto un aumento della libertà dei primi a spese di quella dei secondi.

Si potrebbe obiettare che l’introduzione di determinati istituti, fortemente voluti da talune componenti “laiciste” dello schieramento politico (in Italia e altrove) quali, ad esempio, il diritto all’aborto, indipendentemente dall’accertamento della oggettiva esistenza di cause che lo renderebbero dolorosamente necessario, il matrimonio o altre forme di unione ad esso sostanzialmente equivalenti tra soggetti dello stesso sesso, l’adottabilità di minori da parte di coppie omosessuali, etc,.,  amplia soltanto la libertà di autodeterminazione di alcuni senza imporre alcunché ad altri. Ciò sarebbe vero se ci si limitasse soltanto a considerare la cosa sotto il profilo della libertà di azione (fare o non fare) di ciascun singolo individuo, ma non è più vero quando la si consideri, come dianzi accennato, sotto il profilo della libertà, che pure appartiene a ciascun singolo individuo, di non essere costretto a subire, quando non ve ne sia l’oggettiva necessità, l’offesa che alla propria sensibilità possa derivare dall’introduzione di norme che contrastino con un sistema di valori che, a suo giudizio, dovrebbe essere invece salvaguardato non nell’interesse suo personale ma in quello di tutta la collettività.

In realtà, ragionando in astratto, l’ideale sarebbe per ciascuno quello di avere il diritto di poter fare tutto ciò che gli piace e di non subire nulla di ciò che non gli piace. La realizzazione di un tale ideale è però evidentemente incompatibile con le esigenze minime della convivenza  sociale, per cui spetta allo Stato il compito ineludibile di operare un bilanciamento, in funzione di quello che di volta in volta appare l’interesse collettivo, tra i diritti di fare di alcuni e quelli di non subire di altri.  E la valutazione dell’interesse collettivo risente necessariamente anche delle scelte di natura etica che, come si è detto, anche il più “laico” degli Stati non può esimersi dal compiere allorchè si accinge a dettare le norme dalle quali la convivenza sociale dev’essere retta.

Se così è, appare quindi evidente come lo Stato non possa essere considerato più o meno “laico” a seconda di quali siano le scelte di natura etica da esso compiute nell’adottare  determinati provvedimenti normativi, quando alla base delle scelte vi sia stata soltanto la valutazione di quello che, a torto o a ragione, si sia ritenuto maggiormente rispondente all’interesse pubblico, inteso della più larga delle accezioni possibili. In presenza di tale condizione, quindi, scelte come quella  di consentire a persone dello stesso sesso di contrarre tra loro matrimonio e di adottare minori, ovvero quella di riconoscere l’aborto come incondizionato diritto di ogni donna,  sono da considerare espressione di “laicità” allo stesso identico titolo per il quale lo sarebbero anche scelte di natura diametralmente opposta, ancorché queste ultime fossero in linea con i dettami di una particolare religione e, segnatamente, di quella cattolica.

La conclusione è, quindi, a questo punto, molto semplice: nulla può impedire, di fatto, allo Stato di ispirarsi ad una piuttosto che ad un’altra visione etica nel dettare le proprie norme, ma non può ammettersi che, quando queste  ultime siano volutamente in contrasto con dei principi che, senza essere propri ed esclusivi di una determinata religione (e, in particolare, di quella cattolica) siano però condivisi da coloro che ad essa aderiscono, si pretenda di giustificare la scelta in nome della “laicità” dello Stato, lasciando così fraudolentemente intendere che tale carattere sarebbe stato compromesso se la scelta fosse stata diversa. In realtà una tale giustificazione si fonda  proprio sulla confusione, più o meno consapevole, tra il sano concetto della “laicità” dello Stato e quella che ben a ragione, per quanto sopra osservato, potrebbe definirsi come la sua caricatura, vale a dire il “laicismo” di Stato. Con l’aggravante che quest’ultimo, come caricatura, non sembra neppure divertente.

Fonte: Pietro Dubolino | CentroStudiLivatino.it

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