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L’assoluta necessità di andare a rivedere “Barry Lyndon”

Ritorna in versione restaurata il film di Stanley Kubrick più disprezzato dai critici, perché invece di “raddrizzare” la storia secondo le nostre categorie politicamente corrette insegna a contemplarla. Non mancherò alla proiezione 

Torna sui grandi schermi di tutto il mondo in versione restaurata Barry Lyndon, creato 50 anni fa dal genio ossessivo e ossessionato di Stanley Kubrick, e se lo distribuiranno anche nelle sale italiane io andrò sicuramente a rivederlo. Non solo è il film storico/picaresco più riuscito che si riesca a ricordare; è una di quelle opere d’arte che diventano più attuali e necessarie col passar del tempo.

La storia settecentesca dell’arrampicatore sociale irlandese Redmond Berry fin da quando uscì per la prima volta divide pubblico e critici in due partiti: quello di quanti sono rapiti dal suo splendore formale e affascinati dalla miscela di materialismo storico e drammi individuali della trama, e quello di chi resta totalmente indifferente alla perfezione della ricostruzione storica e indispettito dalla freddezza dei protagonisti, che si scioglie un po’ solo nelle battute finali (a scapito del personaggio principale, come sa chi ha visto il film).

Barry Lyndon vinse quattro premi Oscar (fotografia, scenografia, costumi e musica), ma fu anche oggetto di critiche velenose come quella di Pauline Kael, la stroncatrice in capo del New Yorker, che definì il film «un capolavoro in tutti i suoi insignificanti dettagli». In Italia Tommaso Giartosio un decennio fa lo ha definito «un oggetto cinematografico assolutamente gelido» e «opera… inespressiva». Più o meno quello che scrivevano al tempo i critici cinematografici americani, che in seguito si sono ricreduti e oggi tendono a magnificare il film anziché a sminuirlo.

La pretesa di riscrivere la storia a piacimento

Cos’è che fa aderire a un partito piuttosto che all’altro, o passare nel tempo da uno all’altro? Il rapporto che ciascuno di noi ha col passato e con la storia. C’è chi aspira ad alimentare una connessione fra sé e coloro che furono, e con ciò che fecero, e c’è chi prova orrore di fronte all’arretratezza sociale e morale degli antenati e non intende rievocare le loro realtà.

Il problema che i secondi creano non è tanto l’amnesia della storia, che diffonde le nevrosi caratteristiche di ogni rimozione, quanto il fatto che pretendono che i film e le altre opere artistiche riscrivano e raccontino la storia sulla base della sensibilità odierna e dei princìpi della cultura dominante.

«Barry Lyndon è pressoché unico tra i drammi storici nell’affrontare senza battere ciglio il fatto che il passato preindustriale fosse un mondo alieno; intensamente formale, rigidamente gerarchico e arbitrariamente violento. […] La verità è che il passato era un luogo profondamente strano. È proprio questa stranezza che la maggior parte dei drammi e della narrativa storica contemporanea nega inconsciamente. È una comoda presunzione dei produttori televisivi che l’antica Roma e l’Inghilterra dei Tudor fossero abitate da persone che, sotto le loro toghe e le gorgiere inamidate, erano perfettamente riconoscibili come progressisti del XXI secolo con cui era facile immedesimarsi. Da qui la nostra razione quotidiana di protagoniste femminili toste e burocrati Tudor progressisti. Ma il passato non era affatto così. Era un luogo sconcertante che sfida infinitamente la nostra comprensione».

La piaga della “passatofobia”

Parole sante. Dal secondo dopoguerra ad oggi i film a soggetto storico sono andati sempre peggiorando in qualità con rare eccezioni (viene alla mente La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler, interpretato dal superlativo e probabilmente insuperabile Bruno Ganz); sono passati dalla traduzione visuale puramente calligrafica delle cronache e delle storiografie puntando tutto sugli effetti scenici delle battaglie e di altre scene di massa, all’anacronismo ispirato al politicamente corretto che semina femminismo, relativismo religioso, antirazzismo, promiscuità sessuale stile hippy e condiscendenza per le varianti sessuali attraverso i millenni, che si tratti della Sparta di 300 o della Gerusalemme di Le crociate (Kingdom of Heaven).

Non è successo solo coi film a soggetto storico. Per rendersi conto della “passatofobia” (perdonate l’imperfetto neologismo) che si è impadronita di decine di registi teatrali, basta comprare il biglietto di qualche opera lirica riproposta con allestimenti modernizzati. Si pensi alla Carmen di Bizet riscritta come un dramma della violenza di genere ambientato negli anni Sessanta con finale ribaltato (la donna uccide l’uomo anziché viceversa), al Trovatore di Giuseppe Verdi ambientato in epoca fascista, al Ratto nel serraglio di Mozart, un’opera che esalta la bontà umana universale, che Calixto Bieito vent’anni fa ha allestito come una vicenda che si svolge in un bordello fra scene di sesso in pubblico e abominevoli torture.

L’insuperabile accuratezza di Kubrick

Tutto questo è tragicamente logico: chi vede nel passato soltanto fasi superate dello sviluppo dell’essere umano, nelle quali l’ignoranza, l’immaturità e l’animalità dominavano i rapporti fra le persone, quando si dedicherà alle arti figurative o alle creazioni letterarie produrrà re medievali che governano come sindaci liberal di New York e patrizie romane che non hanno niente da invidiare a docenti woke di Stanford.

Logico anche che costoro non possano apprezzare Kubrick: la freddezza e il formalismo dei suoi personaggi non hanno il significato ideologico marxista che alcuni hanno voluto attribuire a tali caratteristiche (gli esseri umani imprigionati nel loro ruolo sociale), ma quello dell’accuratezza storica.

Citiamo ancora Marriott:

«Ciò che affascina è la fedeltà incrollabile del film all’atmosfera emotiva del passato. Il freddo decoro e l’apatica crudeltà che i primi critici di Barry Lyndon detestavano sono esattamente ciò che Kubrick ha perfettamente compreso dell’ambiente settecentesco. Se il film appare freddo, è perché descrive un periodo storico in cui la risata era regolarmente condannata come socialmente inappropriata».

“Barry Lyndon”, un atto di contemplazione

Ma come fa Barry Lyndon a portarci dentro a un mondo socialmente ed emotivamente così diverso dal nostro e a permetterci di farlo nostro, cosa che poi ci fa dire che abbiamo assistito a un capolavoro? Lo ha capito perfettamente Andrea Cracco, un giovane critico cinematografico: «Barry Lyndon non vuole commuovere, ma contemplare […] non cerca l’empatia, ma la contemplazione».

L’empatia aiuta nei rapporti coi viventi, coi contemporanei. Ma applicata al passato produce le mostruosità woke delle serie televisive che si pretendono a soggetto storico e degli allestimenti modernizzanti delle opere liriche, perché essendo il passato un mondo alieno e impenetrabile, estraneo al nostro sentire, finiamo fatalmente per imporre la nostra sensibilità ai personaggi che intendiamo rappresentare. La contemplazione, al contrario, è lo sguardo portato sull’altro di chi attende pazientemente che egli si riveli. Di tre cose ha bisogno: luce, silenzio, lentezza. In Barry Lyndon ci sono tutte e tre.

Com’è noto, tutto il film è stato girato alla luce naturale e a quella delle candele negli interni, senza uso di riflettori. Speciali lenti Zeiss sono state prodotte per rendere possibili le riprese degli esterni e degli interni senza ricorrere a luci artificiali, con lo scopo, come disse Kubrick stesso, di «far sembrare che il tempo stesso fosse impresso nella pellicola». I dialoghi sono centellinati, la parola dei protagonisti è risparmiata quanto più possibile, a dominare è l’anonima voce narrante. Invece i silenzi sono carichi di dolore, di vuoto, di tragedia imminente. Raramente di idillio. Sono il modem che consente la connessione che ci permette di entrare in relazione col mistero delle vite altrui vissute prima di noi. Ma niente fibra ultraveloce: la velocità con cui sintonizzarsi è quella delle persone e non delle cose, e rispetto alla nostra contemporaneità quella degli antenati vicini e lontani corrisponde a lentezza.

La riconciliazione con gli avi

Qual è lo scopo della contemplazione del passato nella forma della rappresentazione (cinematografica, letteraria, delle arti figurative)? La riconciliazione con quel passato e il nostro personale ricongiungimento con la trama ininterrotta delle vite e delle storie. La riconciliazione consiste nel ringraziare e perdonare gli avi, e nell’essere ringraziati e perdonati da loro. Ringraziarli perché ci hanno generato, perdonarli per le loro colpe che ci sono state trasmesse come un peccato originale; essere ringraziati da loro perché li ricordiamo e perché siamo la loro prosecuzione, e perdonati per tutte le volte che ci sentiamo molto migliori di loro e falsifichiamo la loro memoria.

Il ricongiungimento è ciò che consente di ritrovare il proprio posto nella continuità ininterrotta delle generazioni e delle storie del mondo. Quello che papa Francesco scriveva nella Laudato si’, e cioè che «tutto è connesso. Se l’essere umano si dichiara autonomo dalla realtà e si costituisce dominatore assoluto, la stessa base della sua esistenza si sgretola» (n. 117), non vale solo per il rapporto con la natura e per l’esistenza materiale dell’uomo, vale anche per il rapporto con la storia e per l’esistenza spirituale dell’uomo.

Tutto è connesso non solo sincronicamente – le specie viventi, le componenti fisiche, chimiche e biologiche della terra e dell’universo –, ma diacronicamente: le generazioni, le storie, le memorie. La vita buona ha bisogno di un’ecologia integrale, che oltre che ambientale, economica e sociale deve essere storica e genealogica. Il tutto connesso di cui siamo partecipi ma dal quale ci strappiamo continuamente coi nostri peccati, e di cui siamo chiamati a prendere coscienza per vivere bene, non è solo spazio: è anche tempo («Il tempo e lo spazio non sono tra loro indipendenti», Ls n. 138). Ricompaginati col passato siamo più pienamente uomini.

Fonte: Rodolfo Casadei | Tempi.it

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