Lo spettro delle guerra atomica è tornato ma i leader mondiali non sono scossi. Ritrovarsi nella prima città vittima dell’atomica servirebbe a esorcizzarlo
Ottanta anni fa: ore 8,16. Un bombardiere B 29 ha appena sganciato “Little Boy”: quattro tonnellate e mezza, lunghezza quattro metri e diametro 76 centimetri, un nuovo congegno, pratico, ingegnoso, risolutivo per la morte di massa. Son passati 43 secondi (tutto è matematicamente preciso in questa tragedia, è un terrore documentato scrupolosamente) a seicento metri l’ordigno esplode. Come da programma. L’aereo ha appena compiuto una virata di 158 gradi, bisognava documentare i risultati, si esigevano certezze. Il B 29 fu scosso come se fosse stato urtato da una mano gigantesca, l’onda provocata da una palla di fuoco di un chilometro di diametro, mentre una colonna di fumo alta dodici chilometri si alzò da quella che fino a quaranta secondi prima era una grande città. Ora meticolosamente assassinata. Che cosa bisogna ricordare di quel giorno? Le parole del comandante della fortezza volante americana, il capitano Lewis: «Mio dio, che cosa abbiamo fatto?».
Abbiamo risposto a quella domanda? No. Il silenzio è facile e vi soccombiamo sempre. Quel mattino il mondo ebbe la sensazione fisica che esistesse una tragedia ancora più grande di ciò che aveva vissuto per cinque anni, una realtà orribile, definitiva come l’Apocalisse di cui non conoscevamo che l’ombra. Tutte le leggi della guerra da quel momento non funzionavano più, aboliti i secoli del dominio della polvere da sparo, ecco, siamo entrati nella terrificante epoca dell’atomo.
Oggi a Hiroshima ci saranno i pochi testimoni ancora vivi che l’anno scorso hanno ricevuto il Nobel. Le campane suoneranno. Migliaia di persone si riuniranno nel Parco della Pace, pregheranno e canteranno slogan contro la Bomba, il male assoluto, e chiederanno di prender atto dei suoi inesorabili fatti. Ad ascoltarli, e questo è un dato politico, non cerimoniale, non ci sarà nessuno dei leader dei Paesi che di quell’Apocalisse detengono le chiavi. Sembra incredibile testimonianza della stupidità umana che ottanta anni dopo quel “che cosa abbiamo fatto?” i Paesi con arsenali atomici certificati e contati, o presunti ma minacciosamente esistenti, e gli innumerevoli aspiranti si siano moltiplicati. Ottanta anni dopo Hiroshima ci sconfortiamo per guerre sul filo del rasoio nucleare, politici sciagurati le brandiscono minacciosi come gioielli troppo a lungo tenuti in cassaforte, dispiegano sommergibili e missili per dimostrare che la non arma è diventata di nuovo un’arma. Ci sono presidenti europei che ne offrono generosamente “l’ombrello” ai vicini imprevidenti che hanno speso soldi e intelligenze per inseguire altri obiettivi pantofolai. Dopo aver creduto per un attimo che la via fosse il disarmo ora dobbiamo constatare che non esiste neppur più la miracolosa uscita di sicurezza che era il concetto di deterrenza, ovvero che la Bomba esisteva perché detenerla comportava l’obbligo razionale di non utilizzarla, consapevoli che la distruzione sarebbe stata reciproca, collettiva, senza ritorno. Una polizza di assicurazione sui rischi della oltretomba indicata come “Mad”, Muttually Assured Destruction, distruzione reciproca assicurata. Non sollevava l’animo notare faziosamente che “mad” in inglese significhi folle. Non è la Storia un empirico elenco di mistiche irrazionali, di follie, di negazioni del buon senso?
Nel mondo di oggi, il mondo dei Putin, dei Trump, dei Nethanyau, degli Aytollah la minaccia nucleare non è più credibile in modo assoluto . Ai tempi di Trump, delle sue minacce annientatorie e dei suoi sommergibili procellosi, il discorso di Praga di Obama nel 2009 in cui annunciò un mondo senza ordigni «entro una generazione» appare un patetico geyser di ottimismo. Forse neppure nel momento peggiore della guerra fredda c’è traccia di un incanaglito panorama mondiale così vicino a uno scontro atomico.
La razionalità dei protagonisti con i loro stridi minacciosi e gli occhi miopi è un dato incerto, loro che si servono della minaccia nucleare per guadagnare posizioni non per rafforzare lo status quo. Davvero Hiroshima oggi è ovunque. Sarà per questo che i Grandi con il loro indeclinabile sussiego oggi non ci saranno. Dovrebbero dare risposte. Eppure la Bomba pone una sfida estrema al pensiero umano, perché contiene la possibilità della autodistruzione.
Altro che la fine della Storia nel tripudio dell’abbiamo vinto noi! Siamo alla cancellazione di ciò che è Storia, cancellazione retroattiva perché non ci sarebbe più nessuno ad averne memoria. Ottanta anni dopo negli Stati Uniti (che sono l’unico Paese ad averla utilizzata) c’è chi ancora sostiene che quei centoquarantamila morti del sei agosto 1945 (a cui si aggiunsero quelli di Nagasaki) furono “un male necessario”. Perché altrimenti centinaia di migliaia di giovani americani avrebbero dovuto morire per conquistare, metro dopo metro, il territorio giapponese e porre fine alla guerra.
Quando la Bomba in realtà fu soprattutto un cinico e criminale messaggio intimidatorio rivolto al nuovo nemico, la Russia di Stalin. Bisogna stare in guardia. La scusa del male necessario è sempre disponibile, basta invocare la “sicurezza”, “gli interessi vitali”, “le minacce esistenziali”…Smaliziati manipolatori di sintassi, nei due campi, sono da tempo al lavoro. La Bomba nel 1945 esisteva, non poteva che essere usata. Era così ieri, è così oggi.
Su questo oggi le Eccellenti Assenze di Hiroshima avrebbero dovuto riflettere. La Bomba non è un mezzo al servizio di un fine, è al di là di tutti i fini che gli possiamo attribuire. Perché ha cancellato la necessità di chiedersi ogni volta se il fine giustifica i mezzi.
Fonte: Domenico Quirico | La Stampa.it