La chiusura da parte di Twitter e Facebook degli account di Donald Trump all’indomani dell’assalto a Capitol Hill da parte di alcuni suoi sostenitori nel gennaio scorso ha prodotto un’accelerazione nel dibattito, già avviato da parecchio tempo, sulla regolamentazione dell’operato dei grandi social relativamente alla libertà di espressione degli utenti e alla diffusione di contenuti controversi.

Le grandi piattaforme informatiche sono nell’occhio del ciclone, alternativamente accusate vuoi di censurare l’espressione di contenuti sgraditi ai loro proprietari, vuoi di non vigilare sulla diffusione di notizie false e commenti incendiari. Nella nuova fase del dibattito si inserisce Social è responsabilità – Le questioni aperte dallo scontro tra le piattaforme digitali e Trump (Pensiero solido, 2021), di cui è autore Antonio Palmieri, deputato da cinque legislature, responsabile internet e nuove tecnologie di Forza Italia da un quarto di secolo a questa parte, già autore di Internet e comunicazione politica.

Palmieri è stato il primo deputato italiano ad aprire un account di Twitter (nel 2007) ed è stata la mente dietro la piattaforma forzasilvio.it, creata sul modello di mybarackobama.com. L’affiliazione partitica non appanna per nulla le sue considerazioni, che si vogliono ispirate al realismo.

Trump ha fatto la fortuna dei social

Palmieri riporta con equanimità i punti di vista che si sono contrapposti nel dibattito “i social hanno fatto bene a bannare Trump; no, hanno ferito mortalmente la democrazia”; cerca di far cogliere soprattutto due punti.

Il primo è che Trump ha fatto la fortuna delle piattaforme digitali che alla fine lo hanno bannato, perché la logica commerciale che le ispira esige le dichiarazioni incendiarie e lo spirito polemico che moltiplica fatalmente i clic e i commenti, i quali aumentano il valore commerciale del social agli occhi degli inserzionisti e degli acquirenti delle informazioni sugli utenti:

«la polarizzazione è benzina che alimenta la permanenza e l’attività online e dunque la produzione di dati che consentono di vendere al meglio la pubblicità».

Due Twitter o due Google

La seconda è che non si può invocare la natura privata delle piattaforme digitali per concedere loro piena libertà di rimuovere contenuti e cancellare account: le big tech sono soggetti privati che si muovono con logiche economiche ma che svolgono una funzione pubblica come fossero dei veri e propri Stati in un ambiente, lo spazio digitale, che prima non esisteva.

Le loro piattaforme sono vere e proprie infrastrutture della nostra vita pubblica. E che per di più vengono gestite in condizioni di quasi monopolio.

A tal proposito viene citato Stefano Feltri, direttore di Domani:

«Quando un cliente decide o è costretto a cambiare fornitore, di solito ha un’alternativa. Nel caso delle piattaforme non è così. Non ci sono due Twitter o due Facebook o due Google. L’azione coordinata delle maggiori piattaforme può cancellare chiunque dalla scena pubblica, perfino un presidente degli Stati Uniti in carica, figurarsi persone meno potenti… nessuna compagnia privata ha mai avuto un simile potere».

Non per questo però Palmieri invoca interventi pesanti della mano pubblica, anzi:

«È impensabile affidare allo Stato o al governo di turno il controllo della moderazione dei contenuti. È impensabile tecnicamente, e soprattutto, lo è politicamente. In una democrazia compiuta è impossibile affidare al potere politico la scelta di cosa può essere detto o non detto o di chi può avere il diritto di parola».

Impegni per Big Tech

Nel dibattuto radicalizzato fra sostenitori della autoregolamentazione e tifosi della normativa vincolante, Palmieri propone una soluzione mediana che chiama «autoregolamentazione a democrazia aumentata».

Di fatto si propongono nuovi accordi fra i gestori privati e gli Stati nazionali (o gruppi di Stati, come l’Unione Europea) coi quali le big tech si assumerebbero una serie di impegni, fra i quali quello di indirizzarsi a particolari enti dello Stato prima di prendere decisioni su specifiche questioni.

In particolare Palmieri propone

«una forma di protezione rinforzata della libertà di espressione per coloro che hanno responsabilità politiche e istituzionali (…) l’Unione Europea (e, perché no, anche gli Stati Uniti e le altre democrazie occidentali) potrebbero definire un accordo con le piattaforme, in base al quale nessun contenuto postato da esponenti politici eletti può in alcun modo essere rimosso dai social e che nessun account di partiti o esponenti politici può essere oscurato senza un provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria, a seguito di una violazione delle leggi vigenti. (…)
Perciò il messaggio che incita alla violenza è perseguito, se un giudice ritiene che abbia queste finalità o queste conseguenze, ma non andrebbe perseguita la presenza tout court di un soggetto politico in quanto tale, chiunque esso sia. Un potere pervasivo così immenso non può essere regolato da una singola persona, da una singola azienda».

Testate giornalistiche

Una forma di protezione simile dovrebbe valere per le testate giornalistiche regolarmente registrate:

«Si potrebbe stabilire un accordo in forza del quale – nel caso di eventuali dubbi circa informazioni diffuse da testate giornalistiche regolarmente registrate – le piattaforme non possano agire direttamente, ma debbano segnalare all’Autorità della comunicazione del Paese della testata ciò che a loro avviso non funziona, senza fare alcun intervento di rimozione che non sia autorizzato dall’Autorità».

Nutrire l’algoritmo

Il libro è percorso da un mite ottimismo che rigetta sia le visioni utopiche di un internet dove regnerebbe solo il bene, sia le visioni apocalittiche che vedono nei social e più in generale nelle tecnologie digitali la sentina di ogni male.

La morale sta nel richiamo che dà il titolo al libro: non si possono scaricare tutte le responsabilità sulla “cattiveria” degli algoritmi, perché ad alimentarli siamo noi stessi:

«Raramente ho visto dire con chiarezza che l’algoritmo si nutre di dati, però dei dati che gli forniamo noi, tu e io con i nostri comportamenti, con i contenuti che postiamo e quelli che cerchiamo, con le persone che seguiamo e le pagine che consultiamo. Insomma, l’algoritmo che “si cura” di te lo “nutri” tu, così come io faccio con il mio. Se lo nutriamo bene “crescerà bene” e ci restituirà cose utili, in buona parte. Se gli diamo spazzatura ci fornirà spazzatura».

Fonte: Rodolfo CASADEI  | Tempi.it