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Dante e la Monarchia universale

Il Monarchia è l’unico trattato che Dante ha portato a compimento ed è scritto in Latino, la lingua di comunicazione tra gli intellettuali dei vari paesi dell’Europa occidentale. In esso Dante riprende il tema dell’Impero già presente in altri scritti e particolarmente nel Convivio senza contare i molti riferimenti riscontrabili nella Divina Commedia. Relativamente alla sua datazione, oggi la tesi più accreditata è quella di chi, ritenendo il trattato una risposta molto meditata e argomentata alle tesi teocratiche espresse da Bonifacio VIII con la bolla Unam Samctam (1302), lo colloca negli anni più caldi della battaglia politica tra l’incoronazione e la morte di Arrigo VII, vale a dire 1312 – 1313. Al di là di considerazioni politiche particolari, si può dire certamente che il Monarchia è l’opera in cui Dante si esprime sull’Impero nel modo più organico e compiuto.

L’opera è divisa in tre libri. Nel primo libro Dante afferma che la felicità temporale dell’uomo può realizzarsi solo sotto l’Impero. Infatti ciò che allontana l’uomo dalla pace, dall’ordine e dal raggiungimento del benessere, è la cupidigia dei beni materiali che produce contese a livello sociale e guerre a livello politico. Ora se un unico monarca possedesse tutti i beni del mondo, sarebbe eliminata la tendenza alla cupidigia e pace e giustizia regnerebbero ovunque. Inoltre l’imperatore, essendo possessore di tutto sarebbe con ogni evidenza esente da cupidigia. La necessità di una Monarchia universale sarebbe poi legata al bisogno, insito nell’uomo associato, di un ordine gerarchico facente capo ad un’unica guida che opererebbe per il buon funzionamento della società civile e per il suo progresso nella pace.

Il secondo libro è dedicato a considerazioni svolte alla luce di una concezione provvidenzialistica e teologica della Storia. Dio infatti, come già Dante aveva detto nel Convivio, preparò la discesa di Cristo sulla terra allorchè decise da quale progenie sarebbe nata Maria: quella di Iesse, padre del re David. Da essa come già Dante aveva detto nel Convivio (IV, 5), sarebbe discesa Maria, l’albergo“dove il celestiale rege intrare dovea” e che avrebbe dovuto essere mondissimo e purissimo. Allo stesso modo, poiché da Roma sarebbero venute le fondamenta della Monarchia universale, il mondo doveva essere in pace e ciò avvenne al tempo di Augusto, quando fu chiuso il tempio di Giano e l’intero orbe godette della pax augusta. E’ il motivo paolino della pienezza o “compimento” dei tempi (Galati, 4,4). E’ il tempo in cui con Augusto è istituito l’Impero,  da cui la certezza per Dante della sacralità di Roma, della sua storia e della sua missione a cui dedica la quasi totalità dei capitoli del secondo libro (cfr. in questa stessa rubrica Il canto imperiale del paradiso dantesco).

    Il terzo libro è dedicato alla questione politica più controversa, quella dei rapporti tra Chiesa e Impero. Dante parte dalle finalità proprie della vita umana che sono sostanzialmente due: la felicità sulla terra e la beatitudine dopo la morte. All’imperatore, che opera nel temporale, spetta di provvedere alla prima, al papa, che opera  nella sfera spirituale, alla seconda. Dante afferma che entrambe le autorità derivano immediatamente da Dio: è la “teoria dei due Soli”. Perciò nessuna delle due autorità è subordinata all’altra, ma entrambe devono contribuire alla realizzazione delle finalità dell’uomo, rispettando la sua duplice natura, insieme materiale e spirituale.

Nell’ultimo capitolo dell’opera (Monarchia, III, 16, 53-56), Dante è perentorio quanto all’ Impero: “Così dunque appar chiaro che l’autorità del Monarca temporale discende a lui senza alcun intermediario, dalla Fonte della autorità universale: la quale fonte nella rocca della sua semplicità, scorre in molteplici alvei per sovrabbondanza di bontà”. Insomma, essendo l’Impero un Sole, non riceve l’autorità dall’altro, cioè dal Papato. Tuttavia, questa che potrebbe apparire come una separazione e non una distinzione è alla fine attenuata dall’autore: “E questa verità dell’ultima questione non si deve accogliere in senso così stretto che l’Imperatore romano non sia soggetto in alcuna cosa al Pontefice romano, poiché questa felicità mortale è in un certo modo indirizzata alla felicità immortale. Cesare usi dunque a Pietro quella riverenza che il figlio primogenito deve usare al padre in modo che, illuminato dalla luce della grazia paterna, illumini più efficacemente il mondo cui è stato preposto da Colui solo che è rettore di tutto lo spirituale e il temporale” (Monarchia, III, 16, 61-67).

Nonostante tale attenuazione, rimaneva comunque la piena e coerente affermazione della “teoria dei due Soli” che si opponeva alle tesi teocratiche espresse da Bonifacio VIII nella citata bolla Unam Sanctam rifacentesi a sua volta al dictatus Papae di Gregorio VII e al decretale Venerabilem di Innocenzo III che proponeva invece la “teoria del Sol et Luna”: il Papato come sole che brilla di luce propria e la Monarchia come Luna che brilla di luce riflessa.  Ai filo-imperiali ovviamente quest’ultima teoria non piaceva per nulla.

Note sulla ricezione del Monarchia nella Chiesa

 Il mondo ecclesiatico, fin dagli inizi, non accettò mai la “teoria dei due Soli”. Ora, alcuni anni dopo la morte di Dante, il cardinale Bertrand du Pouget, italianizzato in Bertrando del Poggetto, da Avignone nominato legato pontificio in Italia con amplissimi poteri, aveva deliberato la distruzione dell’opera, bandita dai conventi e dai luoghi di studio. Di tendenze fortemente anti-imperiali, il cardinale nutriva un odio talmente profondo per l’autore del Monarchia, da minacciare di disperderne le ossa, cosa che non avvenne perché vi si opposero Pino della Tosa e Ostasio da Polenta, così come riferito da Boccaccio nel suo Trattatello in laude di Dante. Nel frattempo anche un domenicano  riminese , Guido Vernani, componeva un libello polemico contro l’opera di Dante, dal titolo De reprobatione Monarchiae compositae a Dante.

     Si delineava così un’aperta ostilità al trattato dantesco, considerato anche dal Concilio di Trento non in linea con l’ortodossia. Inserito nell’ Indice dei libri proibiti, nel Catalogo del 1564, sotto il pontificato di Pio IV, l’elenco dei testi vietati non subì variazioni fino al 1881, quando per volere e merito di Leone XIII, venne compilato un nuovo Indice con l’esclusione del titolo dantesco (si veda in proposito il primo capitolo – LEONE XIII: Dante tomista – del bel volume di Valentina Merla, Papi che leggono Dante, Stilo Editrice, Bari 2018).

Il pensiero socio-politico di Leone XIII riprende la distinzione dantesca tra potere ecclesiastico e potere politico e pone ad entrambi esatti limiti definiti dalla propria ragion d’essere. Ma, così ci ricorda il Bondioli  (in “Vita e Pensiero”, 7, 1928), “Non sono tuttavia tanto isolati da dimenticarsi e negarsi reciprocamente. La duplice autorità s’esercita sullo stesso individuo che è insieme soggetto religioso e politico e su cose che interessano contemporaneamente le due potestà”. Già allora però, a fronte di uno stato unitario laicista, fortemente – e biecamente – anticattolico, Leone XIII aveva condannato, nell’Enciclica Diuturnum illud del 29 giugno 1881, il mancato riconoscimento, da parte dei sostenitori dello Stato liberale, dell’importanza della religione.

Fonte: Leonardo Gallotta | AlleanzaCattolica.it

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