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ULTIMO BANCO – 55. In sospeso

«Non ero pronto», così mi ha detto un amico, che è come un fratello e che ha perso il padre qualche giorno fa. E chi può essere pronto, amico mio?
Si rimane sospesi nel vuoto, come funamboli, per questo li ho studiati con attenzione. Il loro segreto è concentrarsi solo su un passo, il prossimo, tutto il corpo sull’avampiede e la corda come fosse il pavimento. Il momento più pericoloso delle loro camminate «in aria» è all’inizio e alla fine, primi e ultimi passi, quando sembra un nulla tornare indietro o saltare avanti: il rischio viene proprio dal voler eliminare la vertigine e la condizione di sospensione.
Così è nei momenti funambolici della vita, sospesi nel vuoto, vorremmo tornare indietro o saltare in avanti, ma proprio questo ci fa cadere: bisogna invece rimanere lì, tutti interi, nel passo, senza passato né futuro, perché passato e futuro non sono né dietro né davanti a noi, ma dentro di noi. Anche i filosofi parlano di «sospensione del giudizio» per indicare l’impossibilità di comprendere qualcosa di cui ci mancano dati sufficienti, condizione non facile ma feconda per il pensiero che diventa così capace di vedere le cose in modo nuovo.

Rimanere «in sospeso» significa stare «per aria», «sulla corda», col «fiato sospeso».

L’unica certezza è il prossimo passo perché in quel passo siamo costretti a esserci «in tutto e per tutto». Solo così accade il miracolo di sentire la vita tutta intera, come un gioco serissimo, che solo noi possiamo giocare, e nessuno al posto nostro.

«In sospeso» è un luogo dove la libertà sgorga dalla roccia della verità, senza maschere e senza la tentazione di accontentarsi di sopravvivere. È invece il momento di «sopra-vivere», di vivere sopra, nella luce e nell’aria, dove accade che proprio la gravità del nostro peso ci garantisce l’equilibrio. Per il funambolo gravità e grazia, peso e leggerezza coincidono, lo stesso accade quando ci si sposa, quando nasce un figlio, quando si perde il padre…

Nel suo Trattato di funambolismo, Philippe Petit, l’artista che il 7 agosto del 1974 camminò clandestinamente su una fune tra le Torri Gemelle (da cui il bel film The walk), dice che quando «il filo trema si vorrebbe imporgli la calma con la forza, mentre invece bisogna spostarsi con dolcezza, senza disturbare il canto della corda… Non bisogna sforzarsi di stare fermi, ma guadagnare terreno». Avanzare, un passo alla volta, per non tradire la vita con i nostri tentativi di eliminare d’un colpo solitudine e paura. Come accade al vecchio conte di Gloucester, nel Re Lear di Shakespeare: dopo essere stato rapito, torturato e accecato da un suo rivale politico, viene abbandonato per strada. Disperato, vuole togliersi la vita ma, ora che è cieco, non è capace neanche di questo. E così, mentre brancola sulla via, incontra un uomo e gli chiede di accompagnarlo sulla scogliera da cui vuole gettarsi. L’uomo, che lui non riconosce, è il figlio Edgar, vagabondo che il padre aveva esiliato dopo aver dato credito ai racconti calunniosi dell’altro figlio geloso di lui. Edgar, che non ha mai smesso di amare il padre, non si rivela, lo asseconda e finge (cosa sa inventare l’amore…) di portarlo su uno strapiombo che, in realtà, è solo una piccola roccia in mezzo a un prato. Il padre si lancia nel vuoto per porre fine al suo dolore… ma rimane illeso. Il figlio lo soccorre, fingendo di aver faticato per raggiungerlo e lo convince che è avvenuto un miracolo: nessuno sopravviverebbe a un simile «salto nel vuoto», se non ci fosse ancora qualcosa in serbo per lui, una vita davanti. L’uomo «sopra-vissuto» torna a credere: grazie all’amore del figlio muore l’io vecchio, quello disperato, e rinasce quello nuovo, quello amato.

Chi, accanto a noi, si sente perduto ha bisogno di sapere che la sua vita è un miracolo e scoprire che rimanere «in sospeso» è un momento che contiene tanta gravità quanta grazia, perché è il momento in cui si scopre che la nostra vita vale la somma di quanto amiamo e siamo amati. È proprio quando sei «per aria» che scopri se hai quella rete di protezione fatta di legami che rimangono stabili e vincono qualsiasi vuoto.
Il mio amico, a cui avevo scritto che ero incapace di stargli accanto, perché il dolore di una perdita come la sua ci rende comunque irraggiungibili, mi ha risposto che mi sbagliavo, il solo fatto di avergli scritto per dirglielo era tra i gesti che lo avevano «sollevato» dalla disperazione e aiutato a fare almeno il passo successivo. E mi ha riportato una scritta in cui crede fermamente da quando la lesse, tanti anni fa, sulla facciata di un ospedale della sua città: «Se potete guarire guarite, se non potete guarire calmate, se non potete calmare consolate».

Per un tempo «sospeso» come il nostro, tra tanta solitudine e paura, credo che questo sia il compito affidato a ciascuno di noi. E alla fin fine, amico mio, sei tu che hai aiutato me.

Fonte: A. D’Avenia | Corriere.it

 

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