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DUE CEPPI DI VIRUS/ Da Bergamo a Lodi, la Lombardia li ha battuti e smentito la Cina

In Lombardia il virus circolato a Bergamo è diverso da quello diffuso a Cremona e Lodi. Ma la doppia aggressione ha dato vita a studi e protocolli utili per tutti

A proposito di Covid-19, si sta facendo strada nell’opinione pubblica una convinzione scientifica acquisita da tempo e già documentata dai fatti: sotto il nome di Covid-19 non c’è un unico ceppo virale, con caratteristiche omogenee, a cui dovrebbe corrispondere un iter clinico analogo.

Allo stato attuale sono stati identificati almeno due diversi ceppi di coronavirus: due virus differenti tra di loro, per sequenza genetica e caratteristiche patologiche provocate. La loro mappatura ha confermato che sono entrati in Italia da strade diverse e hanno provocato due diversi focolai. Uno più grave e più aggressivo, più difficile da controllare e più resistente alle varie forme di trattamento proposto. E, in Italia, la Lombardia è diventata lo scenario in cui i due virus hanno stabilito in modo preferenziale il loro habitat, con un indice di contagiosità molto elevato per entrambi, ma con una distribuzione nello spazio abbastanza precisa. Il virus circolato nella zona di Bergamo è diverso dal coronavirus che si è diffuso nelle province di Cremona e Lodi.

Ancora oggi l’opinione pubblica stenta a capire perché la Lombardia, nota per la qualità del suo sistema sanitario regionale, resti la regione più colpita dalla pandemia e perché in Lombardia sia stata la città di Bergamo, con le valli che la circondano, a pagare il prezzo più alto. Eppure il linguaggio dei numeri è difficilmente mistificabile. I bollettini serali con una infografica sempre ineccepibile tecnologicamente hanno martellato nella testa e nel cuore degli italiani il numero preciso delle persone colpite e di quelle guarite; di quelle in terapia intensiva e di quelle morte, sempre accompagnate da immagini di una tristezza devastante.

Eppure la Lombardia non si è rassegnata né al suo dolore, né al ruolo di vittima designata, come se si trattasse di una sorta di capro espiatorio di un sistema ferito. Ha messo in gioco le risorse dei suoi studi, ha mobilitato le sue università, i suoi policlinici e ha cercato di fare chiarezza su molti aspetti, puntando su una ricerca clinica applicata alle situazioni che sta vivendo.

Sembra confermato, attraverso i test sierologici, che il Covid-19 circolasse nella zona di Codogno già dalla metà di gennaio e le misure di prevenzione intraprese per isolare la zona rossa hanno fatto emergere un dato importante: in quella zona solo il 23% della popolazione ha incontrato il virus, per cui in realtà si è ancora molto lontani dall’immunità di gregge e tutt’oggi è fondamentale rispettare le regole di prevenzione, dalla mascherina al distanziamento sociale. Ma questo dato conferma la positività delle misure messe in atto per il contenimento del virus, in quello che a un certo punto era diventato il focolaio per antonomasia del Paese.

Evidentemente quel particolare tipo di virus che aggrediva la popolazione proprio per la sua aggressività ha fatto reagire con maggior prontezza, bloccando una situazione che altrimenti avrebbe potuto diffondersi ancor di più. Nello stesso momento ha permesso di valutare i rischi che comporta il conseguimento di una immunità di gregge: per conseguirla oltre il 90-95% delle persone deve essere contagiato da un virus particolarmente pericoloso a livello individuale e a livello di salute pubblica.

La diversità dei ceppi è poi emersa con chiarezza anche dalla diversa rispondenza dei malati ai trattamenti. E ancora una volta in Lombardia, concretamente a Pavia, sono stati condotti studi, ipotesi cliniche rigorosamente controllate, e si sono ottenuti risultati interessanti sotto il profilo terapeutico.

Per esempio, fin dal primo momento è apparso chiaramente che trattamenti eseguiti sulla falsariga di quello di Wuhan risultavano inutili per molti pazienti, a volte controproducenti. E questo ha incoraggiato a tentare nuove strade, a sperimentare nuovi modelli terapeutici. Si sono seguite terapie antivirali e si è investito sulla plasma-terapia, grazie a un progetto elaborato dal professor Perotti, primario del Servizio di Immunoematologia e Trasfusione del San Matteo. Utilizzando il plasma iper-immune di 329 pazienti, ammalati e guariti dal Covid-19, che avevano messo gratis a disposizione il proprio plasma, si è ridotta la mortalità di un 10-15%. Un trattamento sperimentale, con un solido fondamento scientifico, riconosciuto a livello europeo, che potrebbe nel tempo essere esteso anche ad altri Centri, a tutto vantaggio dei pazienti.

In definitiva, un quadro importante di una regione che ha saputo trasformare il suo dolore per le drammatiche situazioni che oggettivamente si sono date tra le sue città e le sue valli in occasioni di studio, di analisi e di rielaborazione delle cause e delle possibili soluzioni a vantaggio di tutti, soprattutto nella prospettiva di una eventuale ripresa della pandemia.

Sappiamo che i nemici sono più di uno e che uno è assai più pericoloso dell’altro, ma in attesa del vaccino, su cui sta lavorando il mondo intero, la Lombardia ha creato un solido profilo di cura, ricorrendo a un contributo dei malati già guariti, in una lunga catena di solidarietà, umana e scientifica.

Fonte: Paola BINETTI | IlSussidiario.net

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