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Bagnasco: «L’Europa o si fa comunità o muore»

Parla il presidente della Conferenza dei vescovi europei: «L’Italia non chiede l’elemosina, ma fa legittimo appello a una realtà politica che ha fondato e sostiene: la prima misura è mettere in campo ingenti risorse finanziarie. Nel pensare alla mia missione pastorale ho sempre avuto in mente mio padre, umile operaio che lavorava tutto il giorno e a volte di notte».

«La sfida del coronavirus è il banco di prova decisivo per l’Europa»: il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova, dal 2016 guida il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (Ccee), l’organismo che raggruppa vescovi in rappresentanza di quarantacinque Paesi del continente europeo. In questi anni ha imparato a conoscere da vicino le potenzialità e i limiti dell’Unione, anche grazie al confronto con i confratelli che lavorano nelle diverse Chiese locali, in Paesi guidati da governi  non sempre in sintonia con le posizione  della Chiesa cattolica.

La pandemia quale volto ha svelato dell’Europa? «Comunità di popoli, come volevano i padri, oppure un una piazza di mercati dove alcuni sono più uguali di altri» come lei ha dichiarato di recente?

«Agli occhi di tutti appare un’Europa “lenta”. Questa lentezza mostra quanto cammino si debba fare per essere una comunità di popoli. Forse si deve chiarire se il sogno europeo sia una unione o una comunità. Non credo sia una questione nominalistica, ma di visione e quindi di strutture e dinamiche corrispondenti. Il termine “unione” è bello e nobile, ma sembra indicare una realtà piuttosto ferrea e meccanica, ispirata più dal suo proprio spirito anziché da quello dei popoli membri: “comunità”, invece, mi pare una realtà più profonda e leggera, più duttile e rispettosa di ognuno, più responsabilizzante. In qualunque realtà sono necessarie delle leggi giuste, ma anche la capacità di applicarle equamente, con buon senso. Questo modo di vedere e di agire richiede tempestività, poiché alcuni bisogni non possono attendere, ed esprime la solidarietà oggi attesa. Bisogna però ricordare che la solidarietà non è qualcosa che si applica dall’esterno, ma deve nascere da dentro, dall’anima, altrimenti è una facciata inquinata e fragile. Il problema vero, dunque, è la “cura dell’anima”, come Platone scriveva della democrazia ateniese, cioè delle verità fondamentali che riguardano non il “come” della realtà, ma il suo “perché”. La sfida del coronavirus è il banco di prova decisivo per l’Europa: anche il Santo Padre ha spesso affermato la necessità di un cammino unitario, ma ripensato alla radice, con onestà e da tutti».

 

Ieri il tema migranti divideva i paesi fondatori da quelli del gruppo di Visegrad, oggi la crisi covid e la necessità degli aiuti economici ha creato il fronte dei paesi del nord Europa  contro chi,  Italia in prima fila, chiede aiuti straordinari per un’emergenza eccezionale. Come i vescovi europei giudicano questi muri che si creano su problemi che alla fine riguardano la vita concreta di milioni di persone?

«Parlare, come si fa oggi, di “fronti” rischia di semplificare la complessità. Però è evidente che alcuni Paesi hanno una diversa visione dell’Unione o, quanto meno, dell’applicazione delle sue regole. Forse hanno anche qualche precomprensione verso altri Paesi, tra cui il nostro. Ognuno ha pregi e difetti, e nessuno deve sentirsi superiore se si vuole camminare insieme. È vero che ciascuno deve collaborare per costruire la casa comune senza lucrare; ma è anche vero che la pandemia ha colpito il pianeta senza premiare nessuna economia in particolare. L’Italia non chiede l’elemosina a causa di sue inadempienze, ma fa legittimo appello a una realtà che, insieme a pochi altri, ha fondato e sostiene concretamente. Certe reazioni suonano sbagliate e suicide. Mi chiedo se veramente tutti vogliamo bene all’Europa: sembra sia in atto una variazione virale del “prima noi” in “solo noi”».

 

Nelle assemblea dei vescovi europei c’è sintonia tra le diverse sensibilità dei governi degli stati membro e i vescovi presidenti della Conferenze episcopali nazionali?

«I vescovi delle singole conferenze conoscono meglio di altri cultura e storia, problemi e sensibilità dei loro popoli. Una finalità statutaria del Consiglio delle Conferenze episcopali d’Europa è quella di favorire la lettura sinodale delle Chiese presenti nel territorio, al fine della condivisione, del confronto sulle sfide, della evangelizzazione come la più importante risposta e il più urgente servizio al Continente: testimonianza e annuncio di Gesù Salvatore. Questa è la questione essenziale che interpella tutti: Europa orientale e occidentale, Nord e Sud. Comunque, le letture nazionali sono pastorali e non politiche, sono culturali non ideologiche. Le nostre plenarie non sono un agone politico, ma uno spazio di discernimento ecclesiale, non disincarnato; è nella luce della fede che ha nel Papa il criterio di comunione e di unità. Gli Stati e i Governi sono un’altra cosa. Inoltre, lo sguardo dei Pastori aggiunge un’ulteriore peculiarità: è cattolico, ha cioè lo stigma della universalità. In una tavola rotonda, non in Italia, un politico ha accusato i vescovi di non attaccare i loro governi su certe posizioni. Ho semplicemente risposto che i vescovi fanno il loro dovere di Pastori ad ogni livello, nelle forme che ritengono più opportune ed efficaci, per il bene della gente. Senza urlare».

 

Un cammino comune è comunque necessario, poiché “non ci si salva da soli”…

«I vescovi europei sono convinti che “siamo tutti sulla stessa barca” e, pertanto, è necessario remare insieme. Non vedo alternativa di fronte a giganti vecchi e nuovi: non penso solo a potenze sociali, economiche, finanziarie, ma anche alle grandiose sfide delle tecnoscienze e del pianeta. La pandemia ha brutalmente manifestato, quasi con ghigno beffardo, che non siamo invincibili come ci hanno fatto credere. La vulnerabilità mondiale bilancia e demitizza una globalizzazione che sembra qualcosa di fatale e intoccabile. L’umanità progredisce veramente quando non si infatua di se stessa, fino a mettere l’io al posto di Dio. Fino a decidere il bene e il male».

 

Quali sono le priorità concrete da cui l’Europa deve ripartire?

«Nell’attuale situazione, la prima misura è mettere in campo ingenti risorse finanziarie, anche in forme inedite e senza condizioni capestri. Lesinare ora sarebbe miope e condannerebbe milioni di persone alla disoccupazione, e altrettante famiglie sul lastrico: i postumi della grande crisi scarnificano ancora i più deboli. Non si può perdere tempo in discussioni: l’obiettivo è la ripartenza e nessuno deve restare indietro. È in ballo il futuro economico del Continente in un mondo spaventato e incerto.

Un secondo obiettivo, non immediato anche se urgente, è la semplificazione della macchina. Gli organigrammi non hanno come scopo mantenere se stessi, autorigenerarsi, ma quello di servire la civitas europea. Ora, la civitas europea non è un corpo a sé, ma è la gente, o le genti del Continente. La macchina può essere perfetta nelle carte e nel loro ferreo rispetto, ma deve essere sentita amica dalle persone: questo non si ottiene solo con i giusti aiuti, ma anche con il rispetto dei valori di fondo.

Del terzo obiettivo ho parlato nella prima risposta. Non è questione solo di economia e finanza, di pubblico e privato, di capitalismo di Stato o liberista, ma di visione antropologica. La persona è il perno attorno al quale cresce l’edificio comune nel rispetto della coscienza e della storia dei singoli popoli. Nessuno è disposto a perdere le proprie origini, poiché sono il grembo dei padri. All’origine di ogni società si trova il fatto religioso, poiché l’uomo è di per sé aperto alla trascendenza. Non riconoscere questo significa sposare un laicismo senza laicità, costruire una società basata su interessi o sulla paura, non sulla bontà di vivere insieme. È quindi una società fragile e triste. La fede insegna a vedere che in ogni uomo c’è una benedizione per tutti: sta qui la ragione della dignità umana che nessuna legge può fondare e garantire pienamente. Qui si trova il fondamento ultimo e affidabile di uno Stato di diritto.

Il senso comune dice che l’origine contiene, in misura, anche la meta, e quindi la direzione di marcia. Per questo, tagliare le radici vuol dire far seccare l’albero e smarrire la strada. Ogni nuovo contributo deve essere esaminato alla luce dell’insieme e dei risultati. Le circostanze attuali sono il banco di prova per verificare e migliorare: l’Europa è messa a nudo. O si giunge a una visione antropologica non nominalistica, motivata, condivisa e inclusiva di tutti i popoli, senza colonialismi intellettuali, o forse è meglio fermarsi a intese efficaci ed eque nei vari campi di interesse pratico, senza ingerenze dirette o oblique a livelli più sensibili».

Covid 19 ha cambiato le Chiese? In che modo? Tutto sarà come prima?

«Non so se, superata la crisi sanitaria, si riprenderà tutto come prima nella società e nella Chiesa. Se sarà solo un ritorno e non una rinascita, non avremo imparato nulla da una lezione durissima: e sarà disonorante. Mi auguro che si torni presto a rivedere le stelle insieme, che nasca una normalità diversa, più essenziale e più contenta. Dico questo sottovoce, poiché sappiamo che è grande il popolo delle persone semplici e solide che vivono senza vuote frenesie. Penso piuttosto all’aria superficiale e consumistica che abbaglia e condiziona il sentire diffuso, inducendo stili e bisogni falsi, che vanno a impinguare gli interessi di alcuni.

Mi auguro una ritrovata sobrietà, con meno cose e più valori, con meno individualismo e maggiore comunione, con diminuita frenesia connettiva e più gioia di rapporti; meno chiacchiere e più pensiero, nessuna smania di apparire e più gioia di essere,… La benevolenza, che vorremmo fosse il legame invisibile che ci unisce, non è un sentimento vago, e non si può ridurre a una pia esortazione; esige verità e serietà morale, una continua vigilanza su noi stessi.

Tutti respiriamo l’aria del tempo, e il virus della mondanità assedia anche la fede. La dura scuola di oggi richiama noi Pastori all’essenziale della nostra vocazione, al primato dell’Eucaristia e della preghiera di intercessione per il popolo, al senso del Mistero che ci supera e ci abbraccia.

Spero che le comunità, segnate dal digiuno liturgico ma non dal vuoto di preghiera, riscoprano la centralità di Gesù celebrato e adorato. Solo così possiamo lavare i piedi ai fratelli, anima e corpo, con dedizione e gratuità, senza diventare delle agenzie di servizi. Spero che i credenti vedano il Pastore con gli occhi della fede non con quelli del mondo, e gli chiedano soprattutto ciò che solo lui può dare. Spero che la comunità possa tornare alla Messa per incontrare Gesù, l’unico ponte fra terra e cielo, non per celebrare se stessa. Spero che la Chiesa sia vissuta come dono di Dio, non come autocostruzione. Spero che il tornare a riunirsi della comunità sia nel segno della fede, non delle simpatie ideologiche che creano faziosità e divisione».

Nella riflessione sul post Covid 19, c’è un cammino da percorrere insieme alle altre Chiese cristiane?

«Certamente sì. I rapporti con la Conferenza delle Comunità cristiane del Continente, sono ottimi e regolari. In questi anni ci siamo incontrati a Parigi e a Bruxelles. Sono giorni di intenso lavoro, di preghiera e di confronto su temi concordati. Oltre agli incontri ufficiali delle delegazioni, tengo rapporti personali con i Capi delle diverse confessioni cristiane. Devo dire che è per me una scuola e un arricchimento continui. La pandemia sarà il tema obbligato per i prossimi appuntamenti».

Dal suo orizzonte, come pastore e come presidente di un organismo internazionale, cose vede e cosa si augura per il futuro?

«Nel 2016, nella Plenaria al Principato di Monaco, i confratelli mi hanno dato fiducia. Avevo espresso discretamente il desiderio di dedicare gli ultimi anni di ministero episcopale a Genova. Ma l’elezione è andata diversamente. Come ho cercato di fare nei dieci anni di presidenza della CEI, anche ora tento di fare del mio meglio e di distribuire il tempo tra le cose: ho in mente mio padre, umile operaio di fabbrica, che lavorava giorno e, a volte, anche di notte. Il mio clero lo sa e così spero la gente. Avere la loro comprensione e sentire la loro vicinanza mi aiuta. Penso che accada così ad ogni genitore che deve lavorare molto fuori casa: se sente la vicinanza dei familiari, tutto diventa più facile e la fatica più lieve. Ho la grazia di essere molto sereno e mi affido in ogni momento al Signore. Davanti a me vedo non la fine del percorso, ma il suo compimento: ciò è bello se pensiamo che, oltre la porta del tempo, c’è la pienezza della luce, il volto di quel Dio che Gesù ha rivelato, e che spero finalmente di vedere per la sua misericordia. Per gli anni che restano, desidero ciò che ogni prete si aspetta: alla casa del Clero, insieme ad altri confratelli, pregare con loro e, secondo le energie, continuare a servire le anime come Pastore, sperando di esserlo secondo il cuore di Dio».

Nei giorni scorsi è stata fissata l’ultima campata del nuovo ponte di Genova. Cosa rappresenta la rinascita del ponte?

«Con il posizionamento dell’ultimo impalcato, diventa visibile il nastro lineare, lungo 1067 metri, che andrà a sostituire il ponte Morandi. È un esempio di sobrietà genovese, un composto di solidità ed eleganza, opera dell’architetto Renzo Piano. Insieme alla soddisfazione per un’opera vitale, ormai giunta alla vigilia del suo completamento, si acutizza il doloroso ricordo delle 43 vittime e dei loro familiari, degli sfollati e di quanti sono stati colpiti nel lavoro. Rimarranno nell’anima di Genova per sempre. Nello stesso tempo, la bellezza e la rapidità esemplare dell’opera, non possono non essere motivo di soddisfazione e di fiducia per la Città e la Liguria. Ma anche per il nostro Paese. La nostra gente ha genio e capacità nel fare le cose bene e presto. Spero sia una lezione e uno stimolo per il futuro».

Fonte: FamigliaCristiana.it

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